NICHOLAS MERZ  "American classic"
   (2023 )

Nicholas Merz è un cantautore, però strano.

Non nel senso che faccia chissà cosa o che da lui ci si debba aspettare sconvolgimenti, azzardi, tempeste.

Nativo di Duvall nello Stato di Washington, da tre anni residente a Los Angeles, non è la next big thing, né incarna la prossima evoluzione del songwriting d’oltreoceano, eppure sa attrarre – eccome - in un suo modo affatto scontato. Bislacco magari, disallineato, obliquo, frutto di una scrittura fatta di piccole suggestioni jazzy imbevute di un’aria falsamente retrò. La quale – qui sta il busillis - è forse in realtà soltanto un sapiente trucco di scena, la degna cornice che accoglie un crooning baritonale, intenso e profondo.

Ricorda vagamente Richard Hawley, ricama certe atmosfere memori di Paul Simon, a volte sembra perfino sfiorare Randy Newman; rispetto ai due album precedenti, smussa gli spigoli ed abbassa i giri, ma inserisce nel puzzle elementi nuovi, dando vita ad un milieu fascinoso e velatamente cerebrale, paradossalmente confidenziale e indocile. Ultimo capitolo di una trilogia che egli stesso indica come Duvall Sound, “American classic” raccoglie dodici tracce per mezzora di musica, composta ed assemblata durante la pandemia col contributo di svariati amici e strumentisti, intervenuti rigorosamente da remoto. Concepito come un’ode sui generis al padre Bud, si dota di testi amari, pungenti, ficcanti; ambivalenti addirittura, in bilico tra buoni sentimenti e disincantato fatalismo. E’ un disco spinoso, che Merz porge sotto le mentite spoglie di una rilassata gentilezza di facciata, in verità trasmettendo tutta la precarietà e la ruspante autenticità della working class di cui si fa cantore.

Emblematica l’opener “The Dixon deal”, biografica e afflitta, sospinta da contrabbasso e fiati mentre narra di Bud, dell’onnipresente Vietnam, dell’amico Jerry e – in fondo – del brulicante mondo intero con il suo affannoso arrancare; straniante il folk fasullo di “Hate, unbridled”, melodia frammentata lasciata andare alla deriva in una coda slegata, prima caraibica, poi quasi prog; incalzante il mid-tempo squadrato à la Bodega di “Great spiders” con la sua gag agrodolce. E ovunque in scena personaggi, macchiette, comparse sulla ribalta della vita, passata e futura; memorie tristi (“Condor”), addii grotteschi (“Balding is beautiful”), sarcasmo beffardo (“American classic”), inni all’ineluttabile (“Real me”).

It’s the end, my only friend: resta giusto il tempo per il commiato di “Young man, short in stature”, due-accordi-due à la Lou Reed in poco più di due minuti di tensione crescente, the farewell transmission, l’immaginario testamento spirituale di Bud: è il suggello ad un lavoro piacevolmente ostico, rigonfio di idee, concetti, sberleffi, un pugno di canzoni amorevoli, stringate e imprevedibili, lasciate planare come foglie dall’alto di una torre, portate dal vento verso lidi imprevisti. (Manuel Maverna)