WINTER "Fire rider"
(2022 )
Diciamolo: non è possibile che un disco di gothic-rock sia brutto. Cioè: funziona a prescindere, sia che spinga sul versante della tenebra, sia che ammicchi all’hard-rock, sia che impasti i due ingredienti basilari. Poi, come il purè che ha due ingredienti anche lui, può riuscire meglio o peggio, nel senso del purè. Che può essere più o meno cremoso, più o meno saporito, arricchito con burro, formaggio, noce moscata, ma alla fine sempre di patate lesse e latte si tratta.
Ecco, per il gothic-rock è uguale, e Markus Winter, tedesco di Düsseldorf che vive a Husum, la sa lunga sulla ricetta migliore per esaltare a dovere la materia prima di cui dispone. Leggere per credere quanto scrivemmo un paio di mesi orsono su queste stesse pagine a proposito della raccolta “Looking back”, corposa retrospettiva tra il debutto imponente di “Pale horse” e questo altrettanto mastodontico atto secondo che porta il titolo di “Fire rider”, pubblicato sempre per la sua etichetta Wintergothic Records.
Immancabilmente ispiratissimo, benché non certo provvisto del dono della sintesi, Winter mette in fila altri sedici pezzi per settantotto minuti di musica, ossia quasi un’ora e venti di quel bel darkettone d’antan fatto di: mid-tempo, tonalità minori, bassi pesanti, crooning baritonale alternato a vocalizzi melodiosi, aperture sinfoniche dei synth, chitarroni spessi o effettati a seconda dell’estro del momento, clima di generale afflizione convogliato a meraviglia in brani squadrati che si aggirano tutti sui quattro/cinque minuti, incalzanti e compatti. Con la bilancia che pende frequentemente dalla parte dell’hard-rock, il disco non lesina ritornelloni efficaci (“Lost in the ice”), riff grossi, assoli di chitarra (“You’ve been on my mind” per dirne una), ganci memorabili a getto continuo, avvalendosi anche di diversi featuring di una certa importanza: dalla vocalist croata Nera Mamić (che duetta con Markus nella cover di “Under the gun” dei Sisters of Mercy, influenza principale ed evidentissima) alla prodigiosa ugola australiana del turnista di lusso Aliz AJ (“Violent dream”, in area metal), dal cameo di Angelina Del Carmen nell’assalto a testa bassa di “Never again” fino a “Into the void”, ballata memorabile condivisa coi Florian Grey.
Ed anche se alla fine gli episodi migliori sono quelli che esaltano il lato oscuro (“Unholy blood”, “Fire rider”), pure nei momenti energici e tirati o in quelli più inclini al mainstream (“When all is said and done”) non viene mai meno l’indole umbratile del Nostro, dal singalong irresistibile di “Rough love” alla morbida tenebra di “I want it black”, passando per gli echi à la Chris Isaak di “Can’t hold back the tears” o per il rock radiofonico di “That much is true”, fino alla maestosa chiusura toccante di “Run away from pain (pale horse part II)”.
Alla fine, Markus Winter non tradisce mai, un po’ come il purè. (Manuel Maverna)