CHERI KNIGHT  "American rituals"
   (2022 )

La compositrice sperimentale Cheri Knight utilizza la voce e il minimalismo, per creare esperienze sonore che ammiccano al concetto di John Cage, dell'evento acustico e del suo svilupparsi nel tempo e nello spazio fisico, oltre che alla sua attenzione al suono come fenomeno di per sé. “American Rituals”, uscito per Freedom To Spend Records, è un album le cui tracce sono costituite alla fin fine da loop; la loro ripetizione, oltre che la loro costituzione musicale, richiamano situazioni rituali, come la formula melodica in “Tips on filmmaking”, intonata su un loop di marimba e batteria.

Oltre che compositrice e cantante, Knight è bassista, e infatti il basso compare nei loop di “Prime numbers” e “Breathe”. Nel primo, la voce ripete ossessivamente: “We are all numbers”, nella seconda il verbo “breathe”, disturbato da rumori che sembrano pertiche di ferro. “Water Project #2261” è fatta da pianoforte e glockenspiel, e ci regala un ambiente cristallino.

Ma ciò che caratterizza “American Rituals”, sono le tracce costituite dalla sola voce. “Hear/say” divide l'ascolto in cuffia in due. Vengono intonati i due verbi, che rimbalzano a destra e a sinistra, mentre vengono sovraincise e reiterate delle frasi: “What you hear, what you say”. Non sembra esserci un messaggio da esprimere: l'attenzione verte sulla ricerca dell'effetto sonoro, e la riflessione su di esso. Dello stesso avviso è “Primary colors”, dove le parole pronunciate a ripetizione sono colori: “Black, black and red, red and yellow, yellow” e così via, aggiungendo anche brown e white. Evocando così i nomi di questi colori, e fondendone le sillabe, si possono proiettare gli accostamenti cromatici, come in una sinestesia occhio-orecchio.

Ed infine, con “No one's hands”, siamo perseguitati per 12 minuti da un'armonizzazione vocale algida, fredda, sulla quale una voce ci parla sottovoce tutto il tempo. Questi rituali americani sono collage sonici che fotografano l'istante in cui vengono realizzati. L'approccio è quello situazionista dunque: più che una composizione concepita precedentemente, il lavoro prende forma nel momento della propria realizzazione, dunque possiamo fruire della creazione istantanea, della performance. L'esperienza massima dunque, sarebbe quella dal vivo. Nel frattempo, se ne può avere una versione mignon qui. (Gilberto Ongaro)