CLARA ENGEL  "Their invisible hands"
   (2022 )

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La musicista canadese Clara Engel, originaria di Toronto e attiva anche come visual artist, pubblica i tredici brani per settantuno minuti di “Their invisible hands” ad un anno di distanza dal trittico formato da “Ghost bird”, “Dressed in borrowed light” e “The cicada sessions”.

Attiva dal 2004 sia in veste di solista che in collaborazione con artisti di mezzo mondo, propone una musica diafana e impalpabile, coinvolgente ibridazione tra il Norman Westberg solista (“Ginko’s blues”) e Mark Kozelek (l’arpeggio distillato di “Glass mountain”), qualcosa di simile – per suggestione e sonorità - alle produzioni della Room 40 o della cara vecchia 4AD.

Interamente concepito e realizzato in proprio, l’album mette in luce sia le doti di multistrumentista di Clara sia una non trascurabile profondità letteraria nella stesura dei testi (l’opener “O human child” è tratta da Yeats), intrisi di una poetica sfuggente e grondanti mestizia, abbandono, desolazione.

Composizioni esangui, edificate su giri ripetuti con afflato mantrico, arrancano avvolte da una insistita lentezza; prediligendo la reiterazione di figure, suoni e strutture, rinunciano a svilupparsi, autointrappolandosi in una circolarità tanto suadente quanto ubriacante.

Il risultato è una musica ipnotica fondata su una concezione cerebrale che sottrae immediatezza e regala un pathos sottotraccia, una svenevole, avvolgente litania declinata in lunghi brani a volte strumentali, a volte sospinti da un crooning introverso ed insinuante.

Tra vestigia di Andrew Tuttle e 75 Dollar Bill va in scena una piece dai risvolti psych che trova sublimazione nel tappeto percussivo di “Cryptid bop”, garbatamente strapazzata dagli archi, nel tocco mediorientale di “Rowing home through a sea of golden leaves”, nel folk morbidamente sbilenco di “Golden egg”, ma soprattutto nel pathos gentile ed afflitto dei due vertici assoluti dell’album, ossia le lunghe invocazioni al nulla di “I drink the rain” e “High alien priest”, lamentazioni intime e visionarie calate in una dimensione onirica di eccelsa perfezione.

Il tono generale resta sospeso tra il dimesso ed il confidenziale, venato di una vibrante contrizione sempre ben percepibile tra le nubi purpuree che velano l’orizzonte; una sibillina dolcezza si infiltra tra le larghe maglie di preziose tessiture ed armonie raffinate, in precario equilbrio tra piacere estatico e tenue melanconia. Ma sullo sfondo, parzialmente celate alla vista, si stagliano ombre inquietanti. (Manuel Maverna)