GIOVANNI DAL MONTE  "Anestetico"
   (2022 )

Musica generativa per rigenerare la società. Sembra essere questa l'ambizione di “Anestetico”, lavoro di Giovanni Dal Monte, uscito per SonicaBotanica, che consiste in un doppio album. I due dischi sono parte di un unico concetto: il primo si intitola “Neolitico”, il secondo “Evitico”.

Si tratta di composizioni semiautomatiche, in parte originate da dei loop di synth modulari e di groove machines, in parte poi mettendo in ordine questi loop, e dando loro una forma. I brani sono piccole celle di un mosaico pressoché coerente. Il nome del primo tempo, “Neolitico”, non allude al passato bensì al presente e al futuro prossimo. Secondo Dal Monte, stiamo azzerando la storia, e siamo piombati in una realtà da ricostruire. Così, nelle tracce ascoltiamo loop elettronici secchi e taglienti, come in “Ketama”, “Inle”, “Bagan”, intervallate dalle campane funeste e dal pianoforte detunato di “Sessanta secondi”. In “Komm tanz mit mir” domina la scena un basso acido, che invita anche al movimento, mentre in “Guimaraes” ci sono tante voci mescolate, su un fondo sibilante.

Sembra la colonna sonora di un videogioco post-apocalittico, un punta e clicca dove esplorare gli ambienti e raccogliere oggetti. “Quinta das lagrimas” conferma quest'impressione, tra impulsi saltellanti e suoni square (a onda quadra). Un'atmosfera plumbea invade “Oddo”, che non è una frazione di Monselice (PD), ma una stanza infida, dove tenere gli occhi aperti. Con “Mino” rientriamo nel rassicurante laboratorio di partenza, di quest'ipotetico videogioco. Elettricità si trasmette in “Terza corsia”, tra reverse e suoni inquietanti, qualcosa che fa pensare alle backrooms, recente geniale ambientazione della galassia youtubbara. “Noravox” insiste sull'aspetto rumoroso e industriale, chiudendo il primo disco con delle automazioni glaciali e nessuna via di fuga.

“Evitico” al contrario, si apre con gli arpeggi di “Giglio”, che riverberano, creando uno spazio più largo, si torna a respirare. All'inizio gli arpeggi sono rapidi, e gradualmente rallentano fino a fine traccia, come uno sbocciare dei petali del giglio dapprima improvviso, e poi un lento assestarsi, lasciandosi cullare dal vento (come l'arpa eolia). Con “Mompou a Trapani” si rievocano le riconoscibilissime trombe dei misteri, quelli che sfilano durante la Quaresima, per poi immergersi di nuovo nei suoni sintetici, ma in maniera più morbida rispetto al primo disco. Misterioso è il collegamento col pianista catalano Federico Mompou: forse quei suoni di pianoforte in reverse provengono da composizioni sue?

Procediamo nel viaggio rigenerativo di “Evitico” con “Coimbra”, in un'elettronica dal respiro sempre più ampio, con una voce che ci parla sospirando, per poi addentrarci nella notturna “Albi e Tito” e nell'evanescente “Kyaiktiyo”. Un po' di elettricità torna con “Ebemkusagi”, che in turco significa “arcobaleno”, e una voce, quella dell'ospite Özcan Başak, che dal timbro ricorda quella di Susumu Hirasawa. Non so perché mi sia arrivato questo richiamo mentale; i vocalizzi di Özcan sono tipicamente turchi, non giapponesi; ma forse l'elettronica sperimentale mi ha dirottato lì. Si torna ai suoni notturni e placidi con “Uneraci”, seppur minacciati da qualche basso deformato.

In “Luci e Jack”, Dal Monte dirige la macchina generativa a indugiare su note acutissime di un suono percussivo. Va talmente in alto da non percepire le note, si ascoltano solo dei sassolini vivi. La manipolazione è profonda, e produce oggetti sonori ben levigati. Dei plugin di fiati aprono “Mancano dieci metri”, ed accompagnano campioni delle voci che narrano dell'atterraggio sulla Luna. I rapidissimi movimenti di “Upnatma” e della conclusiva “Anna” riassumono la sensazione diffusa in tutto il doppio album: questa musica sembra fatta da cristalli frullati, ed inseriti in un caleidoscopio.

I titoli curiosi nascondono senz'altro più enigmi di quelli che ho rivelato, e dentro i suoni anestetici c'è tutto un pensiero da scoprire. (Gilberto Ongaro)