BODEGA  "Broken equipment"
   (2022 )

Va be’, se proprio ve lo devo dire – adesso posso confessare, chè la cosa è caduta in prescrizione – non è che “Endless scroll”, esordio dei Bodega, mi faccia poi impazzire. Oddio, ci resisto: debutto importante, circondato da un bell’hype – come dicono quelli bravi. Ambiziosa band della Grande Mela formata per i tre quinti da donne (oggi rimaste in due), un sound figlio degli anni Novanta riportato in questo presente che capire non sai a botte di slackness – come dicono quelli bravi – e condito da uno scazzo – mi perdonino quelli bravi – così ostentatamente radical-chic, hipster e alternativo-è-il-tuo-papà.

Buon disco, eh? Però suonava pigro e indolente, sempre a un centesimo dal fare l’euro, come trattenuto: tanta forma e poca sostanza, quasi un esercizio di stile per mostrare agli adepti dell’indie-intelligente che le fondamenta c’erano e gli alunni erano più che promettenti. Certo, ancora adesso metto in cuffia a volume disgustosamente alto “Jack in Titanic”, ma il resto dell’album stento a ricordarlo come qualcosa di così imprescindibile. Poi dicevano tutti che suonavano come i Parquet Courts, e non avevano torto.

Però.

Però di talento ce n’era a palate, questo da “Endless scroll” chiunque lo avrebbe intuito chiaramente.

La domanda che mi attanagliava – si fa per dire – era: come sarà il secondo album? In quale direzione si muoveranno? Fermi non potevano stare, intendo: allo stesso livello e nella stessa bolla. Sarebbe stato un passo falso ripetersi identici a prima, quando il prima era buono, ma affatto irresistibile nè così unico da lasciarsi riconoscere. Al massimo incoraggiante, questo sì.

Per fortuna, a dissipare la nebbia del dubbio “Broken equipment” (uscito per What's Your Rupture? Records) impiega non più di tre pezzi: tanto basta per superare ogni diffidenza, ritrosia, perplessità. Si capisce in un amen che il tiro è diverso, anche se l’anima non è cambiata e lo sguardo obliquo da intellighenzia permane. Semplicemente: le canzoni sono migliori. Più centrate, più accattivanti, più incisive, più gustose da assaporare. E meno impegnate a specchiarsi e pavoneggiarsi nel narcisismo compiaciuto che rendeva il suo predecessore un tantino presuntuosetto. Oltre che derivativo, come dicono sempre quelli bravi.

Brani concisi e dritti al punto relegano in secondo piano la spocchia vagamente stilosetta e frigida che rivestiva i vecchi Bodega, rinati a nuova vita grazie ad una scrittura più agile e diretta, figlia di un’urgenza che difettava palesemente, impaludata com’era nelle primigenie manieristiche velleità art-rock.

Liberi com’eravamo ieri, finalmente è un piacere mandare in repeat i due minuti e quarantacinque secondi di “Territorial call of the female” – tre accordi in croce, ma perfetti così – o il punkettaccio for the masses à la X di “How can I help ya”, scovare qua e là ritornelli efficaci da mandare a memoria e bearsi finalmente appieno dell’alternanza di voci o di una inattesa prossimità ai mai abbastanza lodati Beastie Boys (“Doers”, “C.I.R.P.”, “No blade of grass”).

Ogni episodio è ben vivo e vegeto, e tutto l’album viaggia incalzante e spedito tra l’aria amabilmente desueta di “All past lovers” - psych-retrò da Beatles in acido –, il bubblegum bislacco di “Seneca the stoic” (a proposito: la partitura del basso nel minuto finale è così tanto simile alla “A forest” di Robbo&soci che mi sono quasi emozionato) e la geniale chiusura che si consuma nei cinque minuti di “After love”, ballata folkish tardo 70’s con tanto di tamburello e un singalong che ti manda via di testa senza nemmeno che tu te ne accorga.

Dodici tracce per quarantadue minuti di sincera goduria, un po’ Pixies, ma non così nevrotici (“Thrown”), un po’ Pavement, ma non così inconcludenti (“Pillar on the bridge of you”), un po’ Sonic Youth, ma non così intellettuali (“NYC”) e pure un po’ White Lung, ma non così problematici (“Statuette on the console”). Soprattutto: un po’ Bodega, stavolta. (Manuel Maverna)