TRUPA TRUPA  "B flat A"
   (2022 )

Tutte le intuizioni che affioravano come iceberg, come indovinelli, come abbozzi di idee, come ipotesi da dimostrare in qualsiasi dei tre album precedenti del quartetto polacco Trupa Trupa sembrano giungere a compimento in questo mirabile “B flat A” (uscito per Glitterbeat Records), undici tracce tra le quali – di nuovo – è facilissimo perdersi, smarrendo appigli e riferimenti ogni paio di minuti circa.

Disseminati ovunque, trucchi e piccoli magheggi, depistaggi, suggerimenti fasulli, indizi ingannevoli. Come già in passato, dall’esordio ondivago di “Headache” allo spostamento laterale di “Of the sun”, transitando per il rebus di “Jolly new songs”, quasi niente va per il verso giusto, ammesso che ce ne sia uno.

Nessun brano reca in sè qualcosa che lo leghi al precedente o al successivo, perso com’è in una giungla di repentini mutamenti di scenario, di sonorità, di scrittura. Già, la scrittura: variegata, cangiante, oscillante tra kraut, post-punk, psych e quant’altro. Voci distanti, doppiate, recitativi, sussurri, testi che ancora una volta spaziano da singole frasi ripetute all’infinito (“Far away”) e temi più complessi, ritmica che si divide tra strutture spigolose e frenetiche (“Moving”) e un’andatura a tratti più lineare, ma spesso sovvertita da qualche asperità inserita in modo apparentemente casuale, in realtà calcolata come fosse math-rock: i quattro quarti di “Kwietnik” o quelli del’up-tempo à la Helmet della tiratissima “Twitch” sono deviati da disturbi vari verso oasi di stasi improvvisa, sviluppi non prevedibili, evoluzioni misteriose, perversioni affascinanti.

Il rallentamento barrettiano di “Lines” e l’ingorgo armonico della successiva “Uniforms” risalgono in linea diretta ad una psichedelia d’antan che sa di mostri sacri; “Lit” arranca stralunata e catatonica richiamando perfino echi post-rock à la For Carnation; “All and all” è addirittura una specie di sbilenca nenia alt-country che unisce impasti vocali beatlesiani ad una ciondolante indolenza, episodio avulso dal contesto come ogni altra divagazione in questi trentotto minuti inafferrabili come da copione. “Useleseness” è una martellata in controtempo che parte come fosse una outtake di “In on the kill taker”, salvo collassare inconclusa in una nebulosa di rumore contorto; “Sick” vacilla pigra e svagata, attraversata da synth incalzanti e spinta a forza verso l’ennesimo cul-de-sac su una modulazione insistita à la Amusement Parks On Fire, preludio alla title-track, commiato incupito che stende su un giro ossessivo di matrice industrial il proprio testamento.

E’ il suggello ad un album sfuggente, incatalogabile, a suo modo ubriacante, talvolta prodigioso: l’ennesima gemma di una band condannata forse a rimanere nel suo ruolo di piccolo gioiello nascosto in piena vista. (Manuel Maverna)