SANTANA "Africa speaks"
(2019 )
Quando ci si appresta a prendere in mano la penna (dicasi, a muovere le dita nella tastiera del pc) per provare a tradurre in parole il caleidoscopio di sensazioni che ci inonda ascoltando Carlos Santana, mito vivente della musica internazionale, il timore reverenziale è più che giustificato, quasi scontato. Le sue composizioni incarnano in modo esemplare, pressoché unico, l'anima primordiale della musica, esprimendo un linguaggio autenticamente universale (questo sì, e non quello studiato a tavolino dai demagoghi della globalizzazione) basato su una preponderante, prepotente, volutamente e sublimemente invasiva base ritmica che riesce a creare comunità tra i presenti, a toccare le corde profonde dell'animo umano e liberarlo invitandolo a muoversi, ballare, trascendere dalla realtà. La sua straordinaria abilità chitarristica, puntualmente arricchita da un’ampia varietà di talentuosi musicisti (con alcune presenze costanti e di lunga data come il giocoliere delle percussioni Karl Perazzo), si inserisce in questo universo ritmico-viscerale elevandolo a vera e propria catarsi: il risultato finale è quasi l'espressione di una religione nel contempo primordiale e universale. Qualunque siano le specificità culturali, l'idioma, la storia dell'ascoltatore, è impossibile resistere alla forza naturale che si sprigiona sul palco, impossibile non esserne trascinati.
Santana, Carlos e la sua band, è uno dei rari fenomeni che è riuscito a non abbassare di un millimetro la eccelsa qualità delle produzioni discografiche pur regalandoci brani che hanno scalato le classifiche mondiali (non li citiamo essendo troppi e troppo noti). A differenza di molti altri album della sua sterminata discografia, in Africa Speaks non troviamo, per dirla coi Matia Bazar (Souvenir, da Melancholia, Blow Up, 1985) “canzoni di facile presa” - a meno di non considerare tale il delizioso “Breaking Down The Door” di vago sapore piazzolliano cantato dalla “regina del flamenco” Buika (autrice dei testi) - e forse proprio questo elemento ci ha ulteriormente stimolato a prendere la penna in mano. Composto da 11 tracce registrate in soli 10 giorni (!), il disco si snoda nei sentieri più battuti del repertorio Santana, a partire dalle radici latino-americane, spaziando a 360 gradi nei più vari filoni (da un rock che non disdegna qualche puntata nell’hard’n heavy, al blues; dal funky al pop di pregevole fattura; dalla world music al jazz; dalla sperimentazione di origine settantiana al rap), con una tale disinvoltura e capacità di sintesi che rendono il suo stile musica unico, indefinibile.
Se l’Africa con i suoi incantevoli richiami ritmici (e non solo) ha costantemente accompagnato le opere del nostro grande chitarrista, qua assume il ruolo di protagonista attraverso l’esaltazione delle componenti sensoriali, dei colori a tinte forti come lo sfondo giallo che domina l’artwork curato da Rudy Gutierrez, della vitalità di un sound radicato nei popoli e nelle loro terre (un Santana “al digitale” sarebbe per fortuna impensabile), quindi nel corpo e nell’anima che possono ricomporre la frattura fittizia operata dal pensiero (occidentale). Dopo il brano introduttivo che dà il titolo all’album (suggestivo e d’atmosfera, con crescendo di cori e corona finale), si aprono le danze con “Batonga” trascinato dal solito Perazzo e dalla moglie Cindy Blackman (un’iradiddio dietro le pelli) proseguendo con una serie di tracce (brevi, eccetto “Blue Skies”, 9’) che lasciano sullo sfondo la forma canzone a favore di una fluidità espressiva a misura di palco dove si avvicendano improvvisazioni, frizzanti duetti strumentali (chitarra) e vocali (Buika), pause riflessive e ripartenze travolgenti.
Mal d’Africa (speaks)? Scommettiamo che una volta inserito il CD nel lettore o il vinile nel giradischi (vade retro mp3!) sarà ben difficile, e ancor meno opportuno, curarlo. Hola Carlos e grazie di esistere! (MauroProg & MarcoSan)