BLK JKS "Abantu – Before humans"
(2021 )
Allora, mettiamo subito le cose in chiaro: non facciamo troppo i fenomeni dicendo in giro che di musica africana ne mastichiamo eccome, nemmeno fossimo tutti Damon Albarn alle prese con la prossima scoperta in Mali.
Confiteor: personalmente, tra nomi vecchi e nuovi – e di musica ne ascolto davvero parecchia - conosco giusto i Tinariwen, i Wrust, Fela Kuti, Femi Kuti, Hugh Masekela, Rokia Traorè, Ali Farka Tourè, Samba Tourè, Mdou Moctar, Bombino. E il quartetto sudafricano BLK JKS, per via di un album di esordio che grazie all’endorsement ed all’interessamento di colleghi e addetti ai lavori ottenne risonanza non indifferente.
Il disco era “After robots”, l’anno di grazia il 2009, l’etichetta addirittura la Secretly Canadian, non proprio pizza&fichi, insomma. L’eco di quell’album durò a lungo, finirono per essere citati e perfino campionati da Mars Volta e TV On The Radio. Era la fine degli anni Zero, Dave Grohl dichiarò che “After robots” era il suo album preferito del 2009, si esibirono alla cerimonia di apertura dei Mondiali di calcio del 2010, il brano “Lakeside” finì su FIFA10, la rivista Rolling Stone li proclamò “migliore nuova band africana”.
Ecco, dopo essersi affermati ad alti livelli c’erano tutte le premesse per un deciso consolidamento del progetto su scala internazionale. E invece no. Con la stessa rapidità con la quale erano assurti al rango di next-big-thing, i BLK JKS si eclissarono loro malgrado, fino a tornare – regredire è troppo - ad una dimensione locale, restando prevalentemente confinati al Sudafrica e dando l’impressione negli anni successivi di aver esaurito la loro parabola.
Fu per iniziativa dello stesso Dave Grohl che aprirono per i Foo Fighters nel 2014 e sulla spinta di quella rentrée proseguirono in un nuovo percorso più votato alla sperimentazione ed alle collaborazioni con esponenti di spicco di vari milieu musicali limitrofi (dal jazz all’hip-hop), in qualche modo rilanciandosi grazie a ritrovate motivazioni. Nel 2018 tornarono quindi in studio per lavorare su materiale inedito, completando un nuovo album dopo un lungo processo di scrittura e perfezionamento delle canzoni: purtroppo lo studio fu svaligiato e con esso anche tutti gli hard-disk contenenti i brani appena realizzati presero il volo. La band non si scoraggiò, e l’anno successivo – assorbita la botta – reincise daccapo le tracce in una session di tre soli giorni.
Il risultato – finalmente ci siamo arrivati – è “Abantu – Before humans”, rinascita in pompa magna a dodici anni da “After robots”, nove brani che ripartono da dove la pista di sabbia sembrava essersi interrotta. Lo fa su etichetta Glitterbeat/We Are Busy Bodies, non proprio pizza&fichi, raffinando ulteriormente quella miscela imbastardita di generi e sottogeneri che ne aveva marcato l’exploit.
Gli ingredienti sono i medesimi che avevano caratterizzato il debutto, ma riproposti con una profondità ed una maturità diverse. L’impatto sa essere a tratti devastante: l’impressione generale è quella di avere accesso ad una musica altra, concepita secondo metodi, strutture, idee lontane da quelle cui siamo abituati. Una musica imparentata sì con mondi noti, ma non procedente da quelli per filiazione diretta: è come se tutto fosse filtrato da un feeling completamente differente, avulso dalle categorie che meglio conosciamo.
Quarantacinque minuti senza stacchi tra i brani – in pratica un’unica suite - costruiscono un discorso unitario che lambisce suggestioni psych, attorcigliato su un’ossatura ripetitiva perfino mantrica nella sua ostinata ossessività, attraversata da un canto che si mantiene vagamente cantilenante, quasi un salmodiare ritualistico.
Ulteriormente nobilitato e corroborato dalla presenza di numerosi artisti noti in patria, l’album vive su un ibrido di folk etnico, stralci di blues sui generis (“Maiga Mali Mansa Musa”), derive free al confine tra prog e jazz (“Running/Asibaleki”), atmosfere che spaziano dal caos alla quiete (la dolcezza screziata della conclusiva “Mmao Wa Tseba – Hare/Indaba My Children”) seguendo il filo di una percussività sempre accentuata, contrappuntata da fiati (l’apporto della tromba è spesso determinante nell’indirizzare i brani) ed elettricità mai disturbante, armonie vocali preziose ed ipnotiche (l’accoppiata “iQ(w)ira – Machine Learning vol 1”/”Mme Kelapile”, su un tempo dispari ubriacante), digressioni in territori vicini al comune sentire (“Harare”), rare concessioni ad una forma-canzone più riconoscibile (“Human hearts”), incursioni decise ed incalzanti nei recessi più puri della tradizione (il sabba martellante di “Yoyo! – The Mandela Effect”).
L’insieme è inafferrabile, trasognato, distante, come un viaggio in un altrove mistico avvolto in un fascino misterioso; una continua scoperta alla quale è bello abbandonarsi, perdendosi tra le braccia di una musica incantevole, ancora tutta da svelare. (Manuel Maverna)