VANESSA PETERS "Modern age"
(2021 )
E’ una questione personale, faccio outing: di cosa stia cantando Vanessa Peters mi importa relativamente.
Lo so che come affermazione suona malissimo, ma so anche che lei è una gran signora e non se la prenderà, anzi capirà il punto di vista, perché – davvero - va bene qualsiasi cosa scelga, ogni argomento, anche i più scomodi e spinosi come quelli più leggeri.
In verità, nelle sue canzoni di realmente leggero c’è poco: si potrebbe disquisire a lungo di una poetica schietta ed essenziale, immancabilmente ammantata di un’amarezza velata di tenue malinconia; si potrebbe lodarne l’innata, inesauribile abilità nello scolpire pezzi da tre minuti e mezzo come quelli che abitano nelle undici stanze di “Modern age” (prodotto da Rip Rowan, marito e batterista di Vanessa, pubblicato su etichetta Idol Records), nuova fatica a tre anni da “Foxhole prayers”, a cinque da “The burden of unshakeable proof”, a quasi venti dagli esordi.
Il bello – qui sta il punto - è che non delude mai, in fondo mantenendosi fedele a quel misto di intensa, sofferta slackness da troubadour e di sfrontatezza da busker, un milieu che la contraddistingue e le conferisce uno status di quasi immediata riconoscibilità, almeno tra gli appassionati di alt-folk e derive limitrofe; ha sempre conservato intatto negli anni - da sola o nei tre album con gli Ice Cream On Mondays - un modo di porsi aggraziato ma fiero, graffiando impavida da dietro l’aspetto mite e solare da brava-ragazza-con-la-chitarra, menando fendenti spavaldi (ho ancora in mente “Carnival barker”) senza abbassare la testa o dichiararsi sconfitta. E poi quella voce, laid-back e morbida sì, ma tagliente quando meno te lo aspetti, feroce anche in punta di fioretto, celata da un mezzo sorriso.
Ecco, quelle di Vanessa Peters – texana di origini, oramai da lungo tempo di casa nel Bel Paese, artista prolifica e generosa - sono canzoni col trucco: magari travestite da canzoni semplici, ma costruite in modo da assumere una valenza sempre differente a seconda dell’estro del momento, del punto di vista, dello state of mind di chi le ascolta. Brani polivalenti, storie che parlano di tutti e di nessuno, che appartengono a chi ci si voglia perdere. Di rado lievi (non lo è nemmeno l’irresistibile “Crazymaker”, scelta come primo singolo), spesso dolenti e disillusi, preda di un qualche malumore, di un ricordo che fa pensare, di una rabbia sottile.
Musicalmente le coordinate di “Modern age” lo tengono nel solco dei suoi predecessori, anche se a tratti Vanessa & soci spingono in direzioni inusitate: tra echi di Tom Petty (apre aggressiva la title-track), del Boss (“Still got time”, in chiusura), suggestioni che rimandano a Suzanne Vega (“Make up my mind”), perfino vestigia degli America (“Never really gone”), a brillare tra le altre perle sono lo shuffle indolente di “Valley of ashes” che richiama rimembranze di Hall&Oates, l’up-tempo incalzante à la Cars di “Hood ornament”, l’apertura orchestrale che dona al quattro quarti squadrato di “The band played on” un’allure nostalgica e lontana, il passo quasi indie di una “Yes” con una strofa degna e memore dei Sonic Youth (sic!), la ballata storta di “The try”, che non stonerebbe affatto nel repertorio dei Cure.
Canzoni come tessere di un mosaico, che sarà bellissimo comunque, anche assemblando a caso colori e forme.
Play it again, Vanessa. (Manuel Maverna)