MY SUNDAY SPLEEN  "Prisoners of nowhere"
   (2021 )

Il mondo è piccolo, e poi c’è la teoria – nemmeno così strampalata, a giudicare dai riscontri – dei sei gradi di separazione, cose così.

Capita allora che in gioventù il sottoscritto sia stato voce e chitarra nei misconosciuti Tensioni Della Mente, e che con detta band – ma quanto ci siamo divertiti! – abbia registrato ben tre album non ufficiali, chiamiamoli pure così. I primi due li stampammo in un centinaio di copie su musicassetta, il terzo su cd col multitraccia del secondo batterista, che aveva spazio e attrezzatura nel garage di casa.

Ecco: i primi due – a distanza di un anno l’uno dall’altro – li provammo e riprovammo con Luca, Arturo e Andrea per mesi, prima a tarda sera nello scantinato di Luca – tastierista ed amico di una vita – e poi per tre o quattro volte in via Casoretto al numero 8, Milano, poco oltre piazzale Loreto (oggi quella zona la chiamano No-Lo e fa abbastanza figo andarci ad abitare, ché è riqualificata), un quarto d’ora di macchina da casa nostra, tranne per Andrea, che per picchiare le pelli veniva apposta da Sedriano col suo ride sotto il braccio. Tre o quattro volte perché, insomma, affittare per un pomeriggio una sala prove in quello studio - scelto con cura dopo lunga e attenta cernita – costicchiava abbastanza.

Lo studio, che si chiamava New Hammill, era serio, professionale, insomma ci dava ogni migliore garanzia per tuffarci nella brillante carriera di successo che sicuramente ci attendeva alla fine della gavetta.

Dopo lo scantinato e la sala prove, il momento era giunto: era l’aprile del 1994, prenotammo di nuovo un intero pomeriggio alla New Hammill, ma questa volta per registrare la nostra prima musicassetta seria (ne avevamo alle spalle una decina, tutta roba casalinga). Il boss dello studio era nientepopodimeno che Roberto Gramegna, uno che aveva lavorato con gente di livello, perfino con la Rettore. E poi – insisto – lo studio era figo, il prezzo lo dimostrava chiaramente: il nostro era un investimento che certamente sarebbe stato ripagato.

Non lo fu, ma eravamo bravi, santo cielo se scrivevamo bene! Non ci credemmo mai abbastanza, questo fu il nostro limite. Anzi: il mio. Pazienza: cuffie in testa (che meraviglia per chi canta sentire tutti gli altri in cuffia! Era la mia prima volta con le cuffie, non steccai una nota che fosse una) e via in presa diretta, con di là dal vetro Roberto Gramegna in persona. Il disco venne uno spettacolo, ça va sans dire.

Tornammo sul luogo del delitto nel luglio del 1995 per incidere il nostro secondo capolavoro, diciannove pezzi suonati in tre ore, quasi tutti buoni alla prima take. Iniziammo con “Godot” (che resta tuttora una canzone bellissima, anche se nessuno la conosce), al termine della quale Roberto Gramegna in persona ci disse: “Buona, suonata bene”. In quel preciso istante di pura gioia ci sentimmo i nuovi Cure. In fondo, mi piace pensare che ci bastò.

All’inizio del nuovo millennio, gli studi New Hammill cambiarono nome in Real Sound Studios, divennero un’associazione culturale (Maciste) e fecero un salto di qualità, mutando pelle ma non anima, fino ad oggi: il boss è sempre Roberto Gramegna, e la cosa già mi allieta. Coi Real Sound Studios collabora la Rocketman Records, etichetta discografica milanese, il cui general manager – manco a dirlo - è lo stesso Roberto Gramegna.

Fine dell’amarcord o quasi, veniamo al dunque.

Su etichetta Rocketman Records, sotto l’egida e la supervisione dello stesso Gramegna e di Ettore “Ette” Gilardoni, pubblica “Prisoners of nowhere” - secondo album dopo l’ep di esordio del 2013 ed il debutto lungo di “Before”, datato 2017 – il trio My Sunday Spleen, nato nel 2012 dall’incontro del cantante e chitarrista Vincenzo Di Tommaso, del bassista Armando Trivellini e del batterista Walter Mammoliti, sostituito da Paola “Johnny” Bertozzi poco prima che la pandemia cambiasse le carte in tavola e che il lockdown bloccasse le registrazioni del disco.

Alla fine ce l’hanno poi fatta, il risultato è un pugno di canzoni dall’indole umbratile, in piena sintonia con questa scia di lutti che da un anno sembra non finire mai, dieci pezzi afflitti in cui ritmo e tonalità minori si prendono la scena, tra echi di Interpol in “Ride along”, vestigia di Smiths nella brillante opener “My window” e retaggi di Libertines sparsi tra le pieghe di “Black alone”.

Tutto estremamente funzionale, lineare, misurato, scandito dal pulsare del basso e dalla cassa in quattro (“Let it go”, piccolo prodigio retrò), condito da sentori nostalgici neppure così velati e da sonorità comunque eleganti pur nella loro essenzialità: per chi abbia intorno alla mia età, un vero piacere poter riassaporare questo connubio gentile di melodia e sottile contrizione, crogiolandosi in una malinconia morbida ed appagante.

A prendere il sopravvento è il mood, solo di rado le canzoni in sé: che ci sono eccome, ma che vanno ascoltate come parti di un discorso unico. Formano un disegno da ammirare quando è completo.

Dal passo à la Stone Roses di “I’ve lost my feelings” al lento accorato di “Dear friend”, dall’inattesa accelerazione, rabbiosa e congesta, di “Prison”, giù fino alle rimembranze wave di una suggestiva “Half/love” alla quale manca giusto il baritono sepolcrale di Matt Berninger per planare in lande ben note, si arriva in un amen all’epilogo di “Almost nothing”, che chiude questi quaranta minuti appassionati e intensi dalle parti dei Cars, lasciando un retrogusto agrodolce di tempi andati.

Quei tempi andati che noi quattro - un quarto di secolo, tanti capelli caduti, qualche figlio e qualche laurea dopo - siamo ancora qui a recuperare dalla memoria, perché della musica che hai amato non potrai mai fare a meno e perché i My Sunday Spleen non fanno altro che suonare proprio quel tipo di musica che ci portò alla New Hammill e che continua ad esercitare un fascino irresistibile, poco importa come, dove e quando.

Luca è un copywriter, io sono un impiegato, Arturo è stato e sempre rimarrà uno straordinario attore di teatro (anche se ha smesso), Andrea è un vigile urbano e picchia tuttora le pelli nei The Work Margherita, animato – lui sì - da una passione sincera ed incrollabile.

In fondo, i My Sunday Spleen – adorabili angeli noir - siamo noi.

Dietro il vetro, Roberto Gramegna è sempre alive and kicking. (Manuel Maverna)