LOS SIQUICOS LITORALEÑOS  "Los Siquicos cenan con Static Tics"
   (2021 )

A volte il confine tra genialità e burla è a tal punto sfumato da essere quasi indistinguibile.

E’ il caso di questi quarantuno minuti che caracollano sul filo sottilissimo della celia, alle prese con una inascoltabilità a tratti così artefatta da rasentare il raggiro, o almeno da avallare un’ipotesi di adulterazione.

Poi però cerchi di penetrare più in profondità l’essenza dell’operazione e ti accorgi che sotto il travestimento di scena c’è forse più di uno scherzo, di una boutade, di un vezzo.

Fa caldo a cavallo del tropico su cui sorge la piccola città di Curuzù Cuatià, borgo natio di Los Siquicos Litoraleños, truppa di sbandati dalla provincia di Corrientes, nord-est dell’Argentina. Una ventina d’anni spesi dietro un sound ciondolante e pigro, in sintonia con la canicola opprimente che invoglia a non far nulla, semmai allo scazzo più brado. Psichedelia latu sensu, di quella senza parapetti né buon senso, lasciata ondeggiare così, come fosse uno show dei Flaming Lips che suonano i Floyd dell’epoca barrettiana.

Sbracata come una comune hippie degli anni sessanta, la banda di Nico Kokote trova ideale contraltare nella follia – algida e metronomica anzichè irridente e scomposta – degli Static Tics, longevo duo post-elettronico olandese col quale dare vita a “Los Siquicos cenan con Static Tics”, split per Z6 Records (etichetta di proprietà degli stessi Static Tics), avanguardia e sperimentazione fuse in dieci composizioni che conservano sì vestigia della forma-canzone, ma (tra)sfigurate in un bailamme capace di stravolgere il concetto stesso di armonia.

Il risultato – ne azzardo un altro - è come se i Mano Negra del periodo “Casa Babylon” si fossero imbattuti in Captain Beefheart.

Rispetto ai fasti passati non è certo una novità, ma anche qui più che mai tutto va a pezzi, sorretto da una base vicina al dub col basso mixato in primo piano a ricamare trame trafitte da contrappunti dissonanti, fiati che si abbandonano a scorribande azzardate, figure impostate su ricombinazioni figlie di pulsioni avant magari non così spinte, ma comunque discretamente impervie.

La voce è costantemente ubriaca e impastata, il ritmo incalza indugiando su cadenze prettamente sudamericane, prontamente uccise e snaturate dalla perdita repentina di ogni godibilità. Se è nel ritmo che risiede un invito alla danza, il piglio festante viene disperso in frammenti riassemblati, frantumato in composizioni sbilenche che della primigenia contagiosa brillantezza conservano solo pochi tratti.

Rimane un’ossatura memore delle radici, come nell’incubo cacofonico de “La situaciòn” o negli accenti asincroni di “Saber mas”, inghiottita da derive free, ma ben più di frequente – tra rumori di fondo, saturazioni improvvise, inattese oasi di effimera quiete e quant’altro – a prevalere è un’indole deviata che flirta volentieri col nonsense.

L’approccio è cubista, mostra la musica sudamericana da punti di osservazione nascosti alla vista: concettualmente, quello che gli Slint hanno fatto al rock mostrando la possibilità di mutarlo in post è esattamente ciò che Los Siquicos Litoraleños fanno alla cumbia: tutto è fuori posto, scassato e sgangherato, una fiera di anomalie a pervertire l’andazzo di brani che mai si avvicinano al puro sollazzo, lambendo invece il fastidio, combattuti come sono tra l’anima goliardica che vorrebbe farne canzonette e l’impulso irrefrenabile a lasciarsi andare chissà dove.

Emergono qua e là sprazzi di lucidità, dai quali fanno capolino i generi e sottogeneri archetipici di cui questo pastiche inafferrabile si pasce per poi risputarli imbastarditi: folk (“Desde acà”), garage-rock (“Soy un troglodita (novo)”, “El ritmo abismo”), perfino suggestioni pop (“Los camisados”), ma è solo fumo negli occhi prima che la mascherata torni a riprendersi la ribalta, giungendo a sublimazione negli otto minuti di “El baile del pato”, saliscendi che toglie il fiato, stordisce, confonde.

Non lo si può definire un disco gradevole: eppure – non so perchè, ma fidatevi – risucchia nel suo gorgo invitando al riascolto, come fosse un incantesimo, un sortilegio malevolo, uno dei tanti trucchi di scena. (Manuel Maverna)