EDOARDO DE ANGELIS "Io volevo sognare più forte"
(2021 )
E sono cinquanta, cinquanta splendidi anni di carriera per Edoardo De Angelis, uno dei più raffinati e sensibili cantautori italiani della sua generazione, amico e collaboratore di Francesco De Gregori, anima fragile, energica, vivida e appassionata, che si muove con grazia tra le parole e le note, un fiume in piena la cui vena compositiva sembra non inaridirsi mai, come testimoniano gli ultimi suoi eccezionali lavori, ancora più avvinghianti adesso che l’autore è da tempo in una fase matura, melanconica e saggia della propria carriera, forte della tanta esperienza e del suo brillante curriculum.
Un talento sincero, Edoardo De Angelis, laborioso e infuocato, levigato ma anche, se e quando le circostanze lo permettono, soavemente diretto, sempre ambizioso ma mai pretenzioso, originale a ogni passo e al tempo stesso sinceramente (e nudamente) fedele al passato, che guarda al nuovo come guarda ai migliori senza timore alcuno di competere con loro, di citarli, di rielaborarli. In tutto questo, oltre che bravura, c’è anche tanto coraggio, grande padronanza delle proprie qualità, impegno e dedizione, un po’ di sana naïvete che mai guasta e, in definitiva, soprattutto, un songwriting sempre sul pezzo, che non cerca mai di voler essere contemporaneo perché non ne ha bisogno (e, del resto, mica dovrebbe esserlo).
La contemporaneità, in fondo, non è roba da folk music; o, ancor meglio, la folk music – e, più in generale, qualsiasi genere musicale che abbia radici profonde – contemporanea lo è sempre, come ebbe a dire Oscar Isaac nel capolavoro dei Coen Brothers Inside Llewyn Davis (2013): “Se non è nuova e non è mai invecchiata, allora è una canzone folk”. E il percorso che De Angelis crea nel suo Io Volevo Sognare Più Forte – o, dovremmo dire, il percorso che iniziò ormai cinquant’anni fa? – è un labirintico gioco di inseguimenti e di fughe, di flirt e poi di rotture, incastonato da pietre che fissano a terra, con sapienza mirabile, i mostri sacri dell’autore e le sue (tante, variegate) libertà.
Dodici brani, dodici pezzi sinceri, co-prodotti artisticamente sia dall’abile Fabio Ferri sia dal quasi esordiente Alberto Laruccia, promessa (già mantenuta!) della scena romana di tecnici della musica, leader de La Scala Shepard e allievo del Saint Louis College of Music, formano il disco. Ritornano anche alcune certezze che popolavano pure i precedenti lavori di De Angelis, come Alessandro Gwis, Cristiano Micalizzi e Marco Siniscalco, solo per citarne alcuni, esimie collaborazioni che si integrano perfettamente con le nuove leve, come Natalia Dudynska, Kyungmi Lee e altri “colleghi” di Laruccia, perfettamente a loro agio in questo meccanismo rodato e saggiamente diretto dall’autore dei pezzi.
Pezzi che, giustamente, allargano quel sentiero che De Angelis sta percorrendo da cinquant’anni precisi. Un sentiero difficile – e chi ha mai detto sarebbe stato facile? –, rarefatto e poetico, un universo che è un muro di vetro un po’ rotto e in parte un po’ ancora in piedi, e tu ci vedi attraverso ma non vuoi attraversarlo perché potresti ferirti. Sì, tutte le cose belle possono anche far male, perché fanno pensare, ti emozionano, ti (dis)turbano, ti modificano. È questo il fine più alto dell’arte. “Ce n’è voluto del tempo”, in effetti, “e la fatica di correre attraverso i minuti dei secoli / aspettando in silenzio / che il pensiero tornasse a parlare”, afferma il brano d’apertura del disco, “Prima d’Essere l’Europa”. Le corde arpeggiate cullano la voce dell’autore, che è caldissima, incandescente, quasi un vulcano che erutta e deposita lava nel paesaggio intorno, tra percussioni solo appena sfiorate e batterie più insistite. Questo è l’humus musicale nel quale il disco si muove dall’inizio alla fine, e attraversa i sentimenti e le finalità più disparate e profonde.
È un folk, quello di De Angelis, sempre pieno di influenze e rimandi. C’è il rock un po’ jazzato de “L’Apertura della Caccia”, di derivazione deandreiana nel cantato e dal testo socialmente impegnato, che sfiora una tematica ben cara all’autore, quella della difesa dei diritti. Di “stampo Faber” sono anche la devastante “Ma Quanto è Bella Napoli”, atrocemente romantica, e l’abbacinante “Il Lupo Non Verrà”, che come la jazzy e seducente “Lettera dall’Inferno” si preoccupa dell’universo in cui vivono i più fragili. Il disco è pieno di rivelazioni improvvise, versi illuminanti e gradevoli, come nella movimentata “Nel Mio Cuore”, che vive di passaggi particolarmente potenti: “Ci porterò il ricordo di tutte le persone / che mi hanno regalato una piccola canzone / che il mio cuore scalderà”. “Cuore Selvatico” prova a rendere metafora ancor più ficcante questo bisogno di amare e di amore che il cantautore percepisce come tattile, vivo. Le rime si susseguono senza soluzioni di continuità e con brutale eleganza; in un contesto apparentemente allegro, De Angelis, in modo cinicamente ironico, ci ricorda che “certe distanze teoriche sono difficili da colmare / e non è detto che ripartire sia sufficiente per arrivare”.
Non ci sono, come al solito negli album di De Angelis, riempitivi; ogni brano ha il suo senso nel tragitto, concorre all’equilibrio finale (volutamente precario, imperfetto, perché così è la vita e restiamo sempre col fiato sospeso: ci saremo domani?) del disco. Siamo sempre sospesi tra sogno e realtà, come ci ricorda la degregoriana “L’Orso e la Stella”, un viaggio fatato costruito intorno a paure e speranze sincere e dolcissime. “E se vai per le strade d’Europa / con il cuore in un passo leggero / troverai quanto è vero che in fondo / siamo tutti sullo stesso sentiero”, canta orgogliosamente e convintamente De Angelis ne “Le Strade d’Europa”. L’Europa di De Angelis “non è solo geografia”. Sì, c’è tanta Europa e c’è tanta speranza in Io Volevo Sognare Più Forte, il cui titolo deriva dai versi della canzone “L’Orso e la Stella”. È quindi, in parte, anche un disco politico, non in senso letterale ma in senso lato, perché ogni gesto che augura, sottintende, aiuta a creare e a costruire un sentimento comune di vicinanza e rispetto.
Nella tristezza che ci avvolge, perché siamo esseri finiti, con una data di scadenza tatuata nel taschino interno del nostro cappotto, dobbiamo provare a reagire, a lottare. “Ho gridato alle stelle del cielo per chiedere aiuto / e ho lanciato preghiere e bestemmie contro un Dio che era muto […] / ho imparato il dolore del mondo / e ho imparato il perdono”, ci ricorda De Angelis ne “Il Dolore del Mondo”, un brano cupo e ritmato, dove la voce del cantautore si staglia sopra un tappeto di note di piano leggere che sembrano pioggia in un giorno d’autunno. L’album, impreziosito, come al solito, da collaborazioni straordinarie, è, per provare a sintetizzarlo in un’espressione coerente, una cavalcata epicamente umile (o umilmente epica) fatta di vite che sopravvivono con dignità enorme, di sensazioni graffianti e fortissime, di carezze dolcissime che lasciano una tremenda malinconia. È un disco emozionante, che sa rendere conto delle tante distanze, stranezze, ingiustizie e bellezze del mondo, dell’Io. Io Volevo Sognare Più Forte si chiude proprio con l’aporia, presentata con fugace leggiadria in “Biancaneve Farà un Po’ Tardi”, che esiste tra sogno e realtà, così spesso rintracciabile in tutta la produzione di De Angelis, che esiste tra speranza e sconforto, tra gioventù e vecchiaia, che si compenetrano e si combattono senza sosta dando vita a ciò che noi banalmente chiamiamo vita.
(Samuele Conficoni)