FRANZONI - ZAMBONI "La signora Marron"
(2021 )
Old friends e winter companions, Manuele Zamboni e Marco Franzoni sono cantautori dai trascorsi artistici decisamente interessanti, sia in proprio, sia in formazione allargata: entrambi hanno fatto parte dei Noverose, Zamboni ha pubblicato tre album da solista, Franzoni è proprietario degli studi Bluefemme Stereorec di Brescia ed è attivo anche come produttore e fonico.
Legati da un sodalizio ultraventennale, pubblicano in vinile per la stessa Bluefemme “La signora Marron”: è uno di quei bei dischi di una volta, di quelli che non si usan più, che non so mai se sentirselo dire equivalga ad un’offesa oppure se in fondo faccia piacere, seppure con necessaria argomentazione a sostegno. Ecco, è più musica da Premio Tenco che da Mi Ami. Appena un po’ retrò, rifinita con sentimento e grande dispiego di creatività, suonata e vissuta, è rigonfia di parole, melodie, contenuti, storie. Si avvale di arrangiamenti pregevoli, ivi compreso l’accattivante atout rappresentato dall'impiego ricorrente della tromba; soprattutto – gradita merce rara – è un lavoro ricco di canzoni che dicono qualcosa.
In un registro arrochito vagamente vizioso, la title-track apre come fosse un pezzo dei Dire Straits cantato da Giovanni Succi, avvolto in un’atmosfera che sa di fumo, di notte, di alcool, sorta di programmatica dichiarazione d’intenti per i quaranta minuti che seguono.
Tra arie di misurata delicatezza ravvivate da passaggi armonici sempre intriganti, mi sovvengono nomi&modelli nostrani che appartengono ad un glorioso passato, meno nomi&modelli nostrani che appartengono ad un dignitoso presente: si possono percepire echi di Fossati in “Tenendo gli occhi spenti”, di Guccini o del Capossela degli inizi nel ballabile slow corretto mariachi di “Non fa rumore la primavera”, del Battisti a cavallo tra ’70 e ‘80 in “Ti aspettavo”.
Irresistibile “Gesù tascabile”, brio e sagacia in uno stomp bandistico chiuso dalla Fanfara Dei Cugini di Montagna in un concitato finale da funerale di New Orleans, rispettosa e personale (interessanti il contrappunto della tromba e l’outro latineggiante) la riproposizione di “Vincenzina e la fabbrica”, totem neorealista che solo il grande Enzo Jannacci poteva caricare di una rassegnazione così vivida e palpabile come quella narrata nelle desolate immagini suggerite dal testo.
Morbida quanto basta tutta l’ultima parte dell’album, dalla pigra andatura western di “Arida”, aperta in un bel chorus à la Brunori Sas, al passo ciondolante da chanson française di “Controluce”, da una toccante “Vent’anni” che si insinua malinconica sul filo dei ricordi appoggiata ad una cadenza indolente à la Mary Gauthier, fino al commiato agrodolce di “Oltre il cortile”, che scivola via in due minuti di crescendo palpitante a suggellare un disco d’altri tempi, encomiabile nella sua indomita ricerca di una profondità mai scontata nè artefatta. (Manuel Maverna)