ENDZUSTAND  "Werk des krieges"
   (2020 )

Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla, chiosa Max Tooney citando l’amico Novecento ne “La Leggenda Del Pianista Sull’Oceano”.

Ralf Rönckendorf ha una storia e un pubblico. La storia è buona, ma non è bella. Per niente.

E’ una di quelle che attraggono, colpiscono, feriscono, segnano. Una storia tracciata indelebilmente sulla sua pelle, sui suoi occhi che da un maledetto 2 aprile 2010 – Venerdì Santo - hanno smesso di vedere.

Una storia nata nell’esercito, proseguita in guerra, finita male durante una missione in Afghanistan.

Attratto, colpito, ferito, segnato dalle poche righe della cartella stampa ho rispolverato il mio tedesco perché queste undici canzoni vanno lette e capite, solo più tardi ascoltate. In rete i testi non ci sono, i tempi degli esami all’università sono lontani, il mio tedesco non basta per comprendere i brani.

Allora scrivo in privato, a Ralf, in tedesco. Risponde, gentilissimo. Mi invia lui stesso i suoi testi via mail.

Un sabato mattina di un fine novembre grigio come piombo sospendo ogni altra attività ed inizio a studiare. Cerco di entrare in un mondo racchiuso in undici canzoni. Strazianti, durissime. Capire è un dovere.

Già appassionato di EBM fino dagli anni ‘90, Ralf continua ad approfondire e maneggiare l’elettronica anche dopo quel fatale venerdì che gli ribalta per sempre l’esistenza. Allestisce un suo studio di registrazione, ne fa una nuova ragione di vita. Tra synth analogici e software vari, nasce “Werk Des Krieges”. Che è – chiaramente, scopertamente – una discesa nel maelstrom, la porta sull’abisso.

Il nome d’arte scelto: Endzustand. Stato finale. Irreversibilità. Indietro non si torna.

Musicalmente: produzione Echozone, basi elettroniche figlie degli anni ’80, ma piegate a sonorità contemporanee, frutto della collaborazione con Achim Dressler per mix e mastering. Suoni meno algidi, più rigonfi, stordenti a volte. Ma è secondario.

Sopra, uno spoken-word arrochito, aspro, incattivito. Dentro, parole letali che mischiano la fredda cronaca e le amare considerazioni che gli eventi portano con sé. Quasi come ascoltare degli Sleaford Mods totalmente privi di sarcasmo, per intenderci. Ma è secondario anche questo. Ciò che cola dal setaccio è perso per sempre. Rimangono i detriti, le scorie, i ricordi peggiori, quello che fa paura. E steso su tutto, un senso opprimente di ineluttabilità.

“Werk Des Krieges” è un martirio sotto forma di cronaca, un memoriale di pura sofferenza in cui Ralf riepiloga e ripercorre l’accaduto, con ordine metodico e teutonica precisione.

Inizia con “Vaterland”, celebrando alla rovescia la patria che manda i suoi coraggiosi figli in guerra (“nessun rispetto/nessun onore/dalla patria tedesca”), prosegue con la condanna della jihad in “Glaubenskrieg” (“esplosivi, terrore, omicidio e suicidio/come mezzo per una politica malata/ma la realtà è l’inferno in terra”), incide nella pietra con immagini che sono flash abbaglianti il “Roter Freitag”, quel venerdì rosso sangue del quale tre fratelli d’armi non videro la fine (“il giorno del risveglio, la terra trema/l’imboscata è organizzata da tempo/gli uomini devono combattere/in tre non tornano a casa/la paura della morte è sempre lì”).

E’ l’incipit, il prologo, l’introduzione alla buona storia. Che prosegue con il risveglio confuso ed intontito di “Trauma”, con la realtà che si fa strada tra le macerie (“svogliato, pigro, senza emozioni/isolato nel tuo sogno/nella testa cosa sta succedendo?/la strada nella vita non ha più ritorno/insonnia, dolore, panico, attacchi/si possono fermare solo con psicofarmaci”); è il passo che precede l’esplosione di rabbia pulsante di “Hass”, l’odio figlio della non-accettazione, la snervante deflagrazione della traccia scelta come manifesto, sublimazione del sentimento più negativo in assoluto, il solo che riesca a farsi udire nel frastuono di una mente stravolta (“non ti vedo sanguinare, non ti sento gridare/voglio solo un’altra cosa, voglio il tuo dolore/questo sentimento è semplicemente fantastico/questo sentimento si chiama odio”), a sua volta preludio alla title-track, nuova condanna di quella guerra che ogni cosa inghiotte e nulla restituisce, se non il suo triste bottino (“tutto verrà distrutto/niente rimane per sempre/ciò che resta è un mondo silenzioso/senza una scintilla di speranza/questa è l’opera della guerra”).

E’ l’acme, il culmine, l’apogeo della dannazione.

Da qui in avanti, un senso strisciante di requie forzata si fa strada tra l’eco assordante delle esplosioni, il calore bruciante del fuoco, il rombo minaccioso degli aerei, la terra bruciata. Resta la solitudine, un silenzio ovattato zeppo di ricordi freschi e mortiferi, un turbinio di emozioni incontrollabili nere come pece. L’accoppiata “Lass mich allein” (“quando grido, lasciami solo/non voglio sentire niente/non voglio vedere niente/non voglio provare niente”) e “Aufschrei” sa di urla dal profondo che risuonano come preghiere al nulla in grandi spazi vuoti (“vecchi amici, nessun amico/ho bisogno di tutto/ma non ho niente/giaccio dimenticato/in una tomba che mi sono creato/grido, da solo”), un sudario di disperazione e repulsione che richiude ogni apertura. Su ogni spiraglio rimasto, una sutura impossibile da lacerare.

Ed anche la vittoria – quella militare, ottenuta sul campo – è vuota come una sconfitta (“ascoltate la quiete/ce l’abbiamo fatta/la guerra è alla fine/e noi al potere/tutto è macellato/il nemico è cacciato/e noi realizziamo/pieni di orgoglio/lo stato finale”): certo, anche questo è endzustand, lo stato finale, lo scopo è stato raggiunto, ma a quale prezzo. Resta la confessione – sempre condotta a passo marziale, nessuna concessione – di “Phönix”, col suo messaggio in bottiglia che sa di resa: “Sofferenza e dolore mi tolgono le forze/in me il dubbio se potrò ancora farcela/la luce muore nel buio/qui solo l’anima ha ancora speranza”.

Vero, ma forse anche al termine di una notte infinita qualcosa rimane, proprio quando non te lo aspetti più. La flebile fiammella che indica l’uscita, un barlume racchiuso nei quattro versi conclusivi: “In me c’è una luce splendente/la posso sentire, ma non vedere/una cosa è certa in questa oscurità/la fenice risorge dopo un po’”.

I must fight this sickness/find a cure, ululava Robert Smith in chiusura di “Pornography”.

Buona storia. Ma non bella.

E come Trent Reznor quando in “Hurt” affoga sotto una scarica acida l’ipotetica redenzione di quell’inatteso “I would find a way”, Ralf non se la sente di consegnarsi al lieto fine. La tenebra vince. Sembrava una stilla di pacificazione, quella resurrezione della fenice. Invece l’ultimo minuto del disco lo lascia alla reprise di “Endzustand”, il solo minuto nel quale il martellamento feroce del ritmo cessa e fa capolino un accenno di melodia suonata su un registro basso e plumbeo. Un minuto nel quale risuonano gelidi i versi sputati pochi minuti prima ed ora elevati a sinistro, funesto commiato: “Ascoltate la quiete/ce l’abbiamo fatta/la guerra è alla fine/e noi al potere”. Leggasi: ecco cosa conta, am ende.

Sia chiaro, questo non è un disco: è psicanalisi.

Ci si può ballare sopra, eccome. Ma è secondario.

Non regala piacere: non vuole, non può. Non è il suo scopo, punto e basta. Può spingere a riflettere su mille aspetti che riguardano lo sporco sotto il tappeto. Le crepe della vita, il male nascosto tra le pieghe.

E’ una catarsi lucida, metronomica come la musica – asciutta, essenziale – che la sostiene e la realizza, sottolineandone ogni passaggio mentre picchia fortissimo e rode come un tarlo nel cervello.

Il resto è un incubo.

O il risveglio da un incubo, che è ancora peggio dell’incubo stesso: apri gli occhi, ed era tutto vero.

Ed è di nuovo buio, anche oggi.

Endzustand. Indietro non si torna.

Auguri, fenice. (Manuel Maverna)