HO.BO "A man with a gun lives here"
(2020 )
In A Man with a Gun Lives Here il gruppo folk-blues piemontese HO.BO continua un percorso di crescita cupo e ambizioso che amplia e sviluppa le sonorità già esplorate in 2/10, il loro eccellente EP d’esordio.
Nella nostra intervista a Samuel Manzoni, il leader degli HO.BO ha parlato di “condivisione e contaminazione di idee divergenti”. Nulla di più vero se si ascolta, con orecchio attento e allenato, A Man with a Gun Lives Here. Si tratta di un disco seducente e fangoso, che pare giungere direttamente dalle paludi del Mississippi, da un cimitero dove Charley Patton e Tommy Johnson strimpellano insieme. I vari elementi del gruppo – il già citato Manzoni, Andrea Bertoli, Filippo Sperotto, Mattia Rodighiero, Marco Tommaso, Edoardo Perona – provengono da esperienze diverse, e si sentono echi di Tom Waits, Verdena, Nick Cave e Serge Gainsbourg insieme, e potrei citare centinaia di ulteriori influenze.
La voce roca e sorniona di Manzoni si incastra perfettamente nell’abbacinante piano o farfisa di Bertoli, le chitarre di Manzoni e Sperotto flirtano col banjo e col basso di Tommaso, l’elettrica di Perona fornisce un elemento di brillantezza dentro un sound lutulento, e il comparto ritmico fornito da Rodighiero funziona a meraviglia. Che importa se gli HO.BO non stanno inventando qualcosa di inedito, ma danno un nuovo smalto – credibile, onesto – a generi antichi e diabolici? Credibilità e talento sono a casa degli HO.BO, vi dimorano e crescono, disco dopo disco, con coerenza e chiarezza, e questo album ne è la prova più forte.
I riferimenti che Manzoni cita nell’intervista, che hanno in qualche modo ispirato i brani del disco, sono fortemente americani e anglosassoni, fragorosi e brutali, dalle murder ballad che hanno influenzato la conturbante “Falling Down, Henry” al profondo sud statunitense che vive in “The Curse of Peak Hill”, tragica e ironica, dalle vicende narrate da Truman Capote in “In Cold Blood” alle assurde peripezie del caso nella brillante “A Tiny Man Called Smith”.
A volte ci si chiede dove abbiano studiato tutte queste cose i nostri (bravi) ragazzi, che ragionano sia da artisti sia da critici di sé stessi. Perseguono non solo ciò che amano ma anche ciò che sanno far meglio, e che garantirà una inevitabile qualità del prodotto. Amano questi generi, queste influenze, ma forse le perseguirebbero anche se non le amassero perché seguono la loro natura, e la loro natura è quella di suonare folk-blues. Un qualsiasi altro genere non permetterebbe ai sei di mostrare con così tanta evidenza la loro bravura.
Si tratta, come ci ha detto Manzoni, di “rifrazioni del proprio essere interiore”. I sei perseguono ciò che sono senza compromessi o paure. Lo si vede ovunque, anche nel brano d’apertura “Hoboes That Pass the Night”, ispirato alla penna di Jack London e vero manifesto non solo del disco ma della storia intera degli HO.BO. E nei paesaggi immaginati di “Summer Clouds”, che sono la solitudine del Piemonte di Fenoglio e la desolazione dei campi di cotone dell’Alabama, uniti da un cielo che è speranza e salvezza. Ed è in quella tristezza perenne, in quel senso di sfortuna inalienabile e dura, che traspira dall’inizio alla fine nella diabolica “Psalms”. E nella ambiziosa e incalzante “Prairie-Dogs”, raffinato omaggio al primo romanzo steampunk della storia. E anche, soprattutto, nel cimitero rivelatorio e funesto della conclusiva “Bones Orchard”, il “frutteto d’ossa” che è la fine e l’inizio: è dove i bluesman più strambi andavano a suonare l’armonica nelle notti di luna piena. Il percorso degli HO.BO è all’inizio e alla fine, è nei crossroads d(e)i Johnson, è nel lamento insondabile del condannato a morte.
(Samuele Conficoni)