FRANCESCO ZIELLO  "Nine hundred fifty seven"
   (2020 )

Più o meno verso il quarto o quinto ascolto, di questo disco non si può più fare a meno.

Si insinua sottopelle con una sorta di ubriacante, infida malìa. Come un profumo, come un veleno, non saprei.

Inusuale danse macabre dissolta in suggestioni cameristiche, “Nine hundred fifty seven” segna l’esordio di Francesco Ziello, compositore e polistrumentista romano al debutto su ADN Records con un concept ambizioso e straniante incentrato sul tema dell’isolamento. Ciò che spiazza fin quasi ad atterrire è la scelta di affidare il messaggio in bottiglia alla figura di Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, pluriomicida seriale tra i più efferati che la storia ricordi.

Lungi dall’emendarne la figura, Ziello preferisce lavorare per astrazione e sottrazione, spogliando la figura di Dahmer di qualsiasi orpello che non sia la mera proiezione della solitudine imposta dalla pena cui fu condannato, ossia 957 anni di carcere; nei quarantatre minuti di questa pièce vanno dunque in scena quattordici episodi inafferrabili, sfuggenti, oscillanti fra opacità e trasparenza, schegge che spaziano in un microcosmo indefinito indissolubilmente legate dal fil rouge del tema portante.

E’ un discorso unitario privo di parole, tranne le poche – quasi inintelligibili – dello stesso Dahmer, stralci di interviste affogati nelle nebbie di “n213”, “Good bye sadness” e “Early red reflections”, suoni da un ectoplasma, sussurri da un’altra dimensione, da dentro un guscio, da oltre una parete, da dietro le sbarre, da un incubo.

Musica per frammenti fatta di piccoli movimenti che deflagrano talora in divagazioni rumoriste sublimate in crescendo episodici (“Following her into the black water”), altrove capace di indulgere ad un neoclassicismo serafico e riflessivo fra Andrew Tuttle e Federico Albanese (“Works for a box”, “Bathtub”) fino ad echi di drone music e dilatazioni di bassi arrotondati ed avvolgenti (“Trying to remember”).

Tra fremiti e riverberi, digressioni minimaliste, repentine deflagrazioni - mai violente né stordenti – ed arpeggi per chitarre assortite (l’accoppiata “Still there” e “Here”, che riecheggia nel nulla come note nel deserto), spiccano il sinistro martellamento cacofonico di “Dialogue”, il pianoforte à la Lyle Mays – deviato in una cadenza vagamente marziale - della già citata “Early red reflections”, la snervante chitarra distorta della title-track, sporcata e continuamente spezzata come fosse una radio mal sintonizzata.

Spavento, irrequietezza, calma effimera e poi di nuovo una corsa nel buio.

Quanto lasciarsi coinvolgere ed irretire sta alla sensibilità di ciascuno: ma più o meno verso il quarto o quinto ascolto, di questo disco non si può più fare a meno. (Manuel Maverna)