ALEX D'HERIN  "Le stagioni che saprai aspettare"
   (2020 )

Canzone d’autore. Con tutti i crismi e le caratteristiche assimilate in anni di ascolti musicali. Piccole incursioni e contaminazioni. Certo, l’originalità è latitante, ma i contenuti sono apprezzabili per i momenti d’intensità lirica e melodica. E questo suo album “Le stagioni che saprai aspettare” ne rappresenta il manifesto. La title track ha un andamento che dà ampio respiro alle liriche ed ai grandi spazi evocati con gli arrangiamenti. I particolari ritorni sul pianoforte solo, a loro volta, riportano a terra l’ascoltatore da quella strana tendenza a prendere il volo che il brano gli conferisce. L’album però si apre con “E mi bevo un caffè”. Brano non molto convincente, nonostante sia un singolo con relativo videoclip in versione cartoon, che non risulta per lo meno essere al posto giusto nella sequenza dei brani. Ciò per il contesto generale ma soprattutto a causa del ritornello, che sembra ideato per ottenere forzatamente l’effetto di piacere a tutti. Poco rassicurante, in considerazione di quello che, di norma, rappresenta il primo brano di un album. Per fortuna sovviene “I giardini di Monet”, che, nonostante sia adagiato su una base musicale che ricorda molto una versione rallentata di “Se una regola c’è” di Nek, fa scorgere, per lo meno nei presupposti della canzone, un certo apprezzabile interesse del cantautore per l’arte. Che riemerge poco dopo con l’altro brano intitolato “Chagall”. Quest’ultimo più misurato e riflessivo, meno cantato ai quattro venti e dotato di un’anima appena un po' più visionaria. Con una certa musicalità ed un certo lirismo, cantato, spesso, ammiccando a vocalità alla Paolo Conte. “Eleonor” è invece una parentesi colorita e palesemente dotata di un’anima celtica, allegra, caratteristica. Mentre con “Chiedilo al cuore” si toccano corde emozionali rilevanti, che riportano alla memoria visioni e riflessioni. E quando incalza nella parte più intensa e carica di pathos, sembra risentire i nodi e le dinamiche di arrangiamenti musicali di un brano a cui questo pare, direttamente od indirettamente, ispirarsi. Ossia “Il cantico dei drogati” di Fabrizio De Andrè. Poi “Instabile” e la sua veste cantautoriale un po' più moderna, più metropolitana. Infine l’ammiccamento alle ritmiche latino americane di “L’uomo senza storia” e le evocazioni western di “Alba viola”. Un album vario, palesemente carico di influenze musicali. E come buona parte della musica cantautoriale italiana, di questi tempi, propone poco o niente di originale. Si tratta quindi, in sostanza, di apprezzare la capacità dei cantautori di sapere conciliare le proprie influenze musicali. Dunque, utilizzando questo metro di valutazione, “Le stagioni che saprai aspettare”, a parte qualche scelta musicale e/o stilistica di troppo o mancante, si classifica ad un buon livello tra gli album che propongono, in sostanza, la rivisitazione in chiave personalistica di una miscellanea di contributi musicali del passato. (Vito Pagliarulo)