BOB DYLAN  "Rough and rowdy ways"
   (2020 )

Tutto ebbe inizio con l’uscita, a fine marzo, della splendida “Murder Most Foul”, diciassette minuti maestosi, un’ipnotica dissertazione di ciò che è stato degli States e del mondo dopo lo choc dell’omicidio di JFK. “Twas a dark day in Dallas, November '63”, canta Dylan in tono austero, descrivendo con precisione asciutta il luogo e il tempo della tragedia. “Murder Most Foul” è stato l’inizio di tutto e chiude questo disco. È stata anche la prima canzone interpretata da Bob Dylan a raggiungere la posizione di vetta in una classifica Billboard, cinquantotto anni dopo il suo disco d’esordio. Poi, in aprile, è arrivata “I Contain Multitudes”, che nel titolo cita Walt Whitman e nel cui testo Dylan paragona sé stesso a Rolling Stones, Indiana Jones e Anna Frank. È la combinazione di queste figure, ha dichiarato in una recente intervista rilasciata al New York Times, e non sono le singole parti, ad assumere un senso cruciale nella canzone. Infine, a maggio, insieme all’annuncio dell’album, è uscita “False Prophet”, sorta di dichiarazione di poetica da parte di uno che ha sempre sostenuto di non essere il profeta di niente e nessuno ma che ha sempre parlato come un profeta.

Rough and Rowdy Ways ha un titolo che rimanda a una canzone del 1929 di Jimmie Rodgers e ripropone atmosfere molto simili a quelle che Dylan crea in concerto da ormai molti anni. Ad accompagnarlo sono i fedeli musicisti che suonano attualmente al suo fianco nel Never Ending Tour. Ci sono Bob Britt e Matt Chamberlain, elementi che si sono aggiunti al suo gruppo solo lo scorso autunno. Ciò conferma il fatto che l’album debba essere stato registrato pochi mesi fa. Tra i musicisti addizionali sono listati anche Fiona Apple, Blake Mills e Alan Pasqua. Dylan parte dall’esperienza musicale che ha attraversato tra 2015 e 2017, quando ha pubblicato tre album più che buoni, Shadows in the Night, Fallen Angels e Triplicate, che contenevano una cinquantina di brani sinatriani pescati dal Great American Songbook. Si tratta di canzoni con le quali è cresciuto e che conservano un posto particolarmente caro nella sua memoria. Nei suoi recenti concerti quelle strutture musicali e stilistiche pervadono anche gli arrangiamenti coi quali Dylan ha destrutturato e poi ricostruito i suoi brani.

È grazie a questo approccio misurato e poetico che Rough and Rowdy Ways risulta il miglior album di Bob Dylan dai tempi di Modern Times, più straordinario dei pur ottimi Together Through Life e Tempest. Come in quei dischi anche qui ci sono blues che vanno come un treno e potrebbero uscire direttamente da Highway 61. Al tempo stesso, però, suonano diversi da tutti quelli che Dylan ha registrato finora. “Goodbye Jimmy Reed” è costruita intorno a una voce graffiante ma mai sopra le righe. Dylan sembra essere in trance. La voce si fonde perfettamente con la musica intorno e i rari soffi di armonica impacchettano il tutto con grazia e raffinatezza. Siamo a un perfetto incrocio tra i polverosi deserti di “Narrow Way” ed “Early Roman Kings” e la sensibilità con la quale Dylan interpreta i brani sinatriani degli ultimi dischi. C’è anche qualche riferimento testuale ad alcuni di questi pezzi, come “Some Enchanted Evening” e “Autumn Leaves”.

In un altro graffiante blues, “Crossing the Rubicon”, l’attraversamento del fiume, che rese Cesare un ribelle agli occhi del Senato di Roma, diventa la perfetta metafora per una trasformazione, o forse è meglio dire una trasfigurazione, per citare un termine che Dylan stesso ha usato in una intervista del 2012 per Rolling Stone. Tuttavia permane la pericolosità che questo gesto implica e che Dylan fa coincidere col 14, un numero particolarmente sfortunato per gli Stati Uniti, il giorno nel quale affondò il Titanic e Lincoln fu assassinato: “I crossed the Rubicon on the 14th day / Of the most dangerous month of the year / At the worst time, at the worst place / That’s all I seem to hear”. La voce di Dylan sembra venire da un altro mondo, rompe le leggi dello spazio e del tempo e, appoggiandosi al ritmo senza regole ferree, dà potenza a ogni verso.

“I Contain Multitudes”, che apre l’album, è una ballata orchestrale e intimista. Dylan sembra aprirsi come quasi mai aveva fatto, conducendoci per mano nel suo universo, in punta di piedi, mentre dipinge paesaggi e nudi. Dylan è un discreto pittore e scultore e mostre di sue opere sono state allestite in varie parti del mondo. Nell’oscuro blues “False Prophet” il polveroso riff chitarristico incrocia l’atmosfera crepuscolare, da locale notturno, che tutto l’album rincorre. Qui il Dylan di Tempest incrocia il Dylan all’altezza di Time Out of Mind e, non dimenticando gli altrettanto straordinari Love & Theft e Modern Times, rivoluziona di nuovo il modo di occuparsi di rabbia e vendetta. Le parole, come sempre, scorrono copiose e potenti, sassi sulla finestra che ti costringono a fermarti e a riflettere e che paiono avvicinarti al patibolo. Il lavoro chitarristico di Charlie Sexton e dello stesso Dylan è particolarmente aggressivo e vivace. “I ain't no false prophet / I just know what I know / I go where only the lonely can go”, canta Dylan senza alcuna pietà. Il narratore sa di non essere paragonabile a nessun altro al mondo, è un primus inter pares ma secondo a nessuno, ed è pronto a seppellire i nemici coi loro oro e argento.

Un nemico giurato compare anche in “Black Rider”, che forse rappresenta la morte. Questa figura oscura cerca di far tremare le fondamenta del narratore: “I’m walking away, you try to make me look back”, canta Dylan, che ha più volte dichiarato di non volersi guardare mai indietro. È una ballata secca, drammatica, dove solo una chitarra spagnoleggiante e pochissimo altro accompagnano una voce potente e incisiva, che nel procedere si fa minacciosa e spietata. Contrasta con questa atmosfera aridissima la massimalista “My Own Version of You”, per la quale è difficile trovare paragoni nel repertorio di Dylan. Nel brano, che è una rilettura di Frankestein, Dylan cerca i pezzi per costruire un’amata perduta ma sembra più parlare del modo in cui scrive canzoni. Vuole che suoni il piano “like Leon Russell / Like Liberace, like St. John the Apostle” e che abbia qualcosa del Pacino di Scarface e del Brando del Padrino. Sono sei minuti abbondanti e claustrofobici nei quali Dylan, oltre che a Mary Shelley, guarda anche a Edgar Allan Poe, menzionato in “I Contain Multitudes”.

Musicalmente parlando il disco attraversa umori e paesaggi molto differenti. Ci sono episodi dolcissimi dove Dylan sembra aprire il suo cuore a chi ascolta e sembra darci qualche indizio su chi sia davvero. L’amore non è più un sentimento che va affrontato con cinismo e distacco, come dimostra la meravigliosa “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You” che inizia come una serenata: “I’m sitting on my terrace, lost in the stars / Listening to the sounds of the sad guitars”. Dal punto di vista lirico in Rough and Rowdy Ways Dylan dimostra per l’ennesima volta di essere uno dei più grandi scrittori di oggi. Per lui è il primo album di brani autografi dopo il Nobel e il suo straordinario talento continua a splendere altissimo. Sarebbe troppo complesso, dopo così pochi ascolti, riuscire a dissotterrare tutti i riferimenti che ogni brano contiene. Dylan ci ha abituato a questa complessità. Giulio Cesare è menzionato esplicitamente, si cita Giovenale, ci sono Whitman e Shakespeare. C’è la Bibbia, ovviamente. Contiene moltitudini, Dylan. E soprattutto scrive proprio bene.

Spesso la narrazione si fa epica. “Mother of Muses” inizia con la classica invocazione alle muse ma si trasforma ben presto in qualcosa di ancora più vasto. Dylan nomina Elvis e Martin Luther King e chiede di essere purificato. Si dice stanco di rincorrere bugie. Tira le somme sulla sua esistenza ma sempre in un’ottica universale. Canta sé come parte della specie umana e chiede di essere liberato dal peccato. In “Key West (Philosopher Pirate)”, brano superlativo, Dylan compie un viaggio agli estremi confini della Florida. È un viaggio che arriva fino al fondo dell’anima. Key West è il luogo dell’immortalità. Benedetto da Ginsberg, Corso e Kerouac, il narratore vi si avventura senza porsi domande perché ormai sa che non ha altra scelta. È in auto e ascolta stazioni radio pirata che trasmettono dal Lussemburgo e da Budapest e gli tengono compagnia. Presso il Golfo del Messico, in una terra incantata, può ritrovare la mente che aveva perduto. Non poteva che essere questa la canzone migliore per condurre l’album al capolavoro che è “Murder Most Foul”, l’inizio della storia e la fine del disco. Non a caso il pezzo si chiude con una lunghissima lista di brani che Dylan richiede al DJ Wolfman Jack, una straordinaria ricapitolazione delle proprie ispirazioni e influenze.

Dylan ha da poco compiuto i 79 anni. In Rough and Rowdy Ways possiamo sentirlo in tutta la sua fragilità e nella riluttante accettazione di essere diventato, in questi sessant’anni, una guida e un eroe per varie generazioni. Fa sempre di più i conti con la morte ma, come ha dichiarato, non tanto con la propria quanto con quella di ogni essere umano. Tutto a Dylan pare passeggero. Ora ci chiede di ascoltarlo e ci conduce per mano in mezzo a viaggi e impressioni. In “Mother of Muses” canta “I’ve already outlived my life by far”. C’è nostalgia in questo verso, perché ci accorgiamo che il tempo non farà sconti neanche ai nostri eroi. Ma è proprio in questo momento che ci rendiamo conto che Dylan è qui, ci accompagna, ci aiuta. (Samuele Conficoni)