HERMETIC DELIGHT "F.A. cult"
(2020 )
A questo disco devo un abbraccio e una tirata d’orecchi.
Un abbraccio lo merita di sicuro, non fosse altro che per la dichiarata ispirazione che lo guida e per le sonorità adottate: sincera la prima, deliziose le seconde, rifinite con cura quasi maniacale.
In fondo siamo tutti un po’ nostalgici, e se c’è una sola cosa che mi sento di rimproverare a “F.A. Cult”, debutto per October Tone del quartetto alsaziano Hermetic Delight, è la sua palese distonia tra il mood generale - che vorrebbe ricreare prendendo a prestito con discrezione e devozione modelli archetipici importanti e blasonati della dark-wave eighties – e l’espressività chiamata a veicolarne lo spirito.
E’ docile, mansueta e confortante la voce flautata, melodiosa, addomesticata di Zeynep Kaya, vocalist di origine turche alle prese con materiale sonoro resistente al tempo: musica che spesso cita, ma che di rado inquieta, quella spalmata nei dieci episodi di “F.A. Cult” è una pacifica ibridazione di oscurità e brillantezza, un insolito pop solo vagamente incupito per produrre un effetto suadente senza fare troppo male.
Ad anni luce di distanza dalle passioni ed ascendenze off citate dai quattro membri della band, l’apertura di “Glassdancers” rimanda piuttosto al repertorio dei Berlin o dei Texas, mentre “Rockstarlari” – con scintillante partitura di chitarra - sembra quasi un pezzo dei Bodega, indie al punto giusto, furbetto ed incalzante coi suoi coretti ammiccanti.
I vocalizzi gorgheggianti e goth di “Unravel”, la fuga di synth in “A void” che ricorda perfino il compianto Jon Lord, il bel crescendo congesto e saturo di “Common love square”, mitigato e temprato dal canto, sono alcuni dei preziosismi di cui è costellato questo album di pregevole fattura e sciolta emotività: armonie solide e cangianti trovano la propria dimensione più congeniale nella conclusiva “How high is your high?”, sette minuti docilmente caracollanti su un’aria dilatata tra la Siouxsie di “Superstition”, le aperture ambient di Enya e qualche eco sparsa dei My Bloody Valentine più concilianti.
Dieci anni di carriera, tre ep e finalmente questo esordio lungo tardivo e meditato sono prove indiziarie di una classe che emerge a tratti con prepotenza tra le ombre lunghe di un’indole estrosa e crepuscolare. (Manuel Maverna)