BOY GEORGE  "This is what I dub"
   (2020 )

Fosse stato ben gestito, fin dai primi tempi in cui faceva il vetrinista nella Londra dei pazzi, Boy George sarebbe stato molto, molto diverso da quello che abbiamo poi conosciuto. Ma forse non sarebbe stato quello che poi abbiamo conosciuto, e allora il gioco sarebbe valso la candela? Forse sì, forse no, ma almeno ce lo saremmo goduto – almeno noi suoi fans della prima ora – un po’ di più, almeno come mainstream. Invece, fin dallo scoppio dei Culture Club prima versione, Giorgino nostro ha preferito fare quello che gli pareva nel modo in cui gli pareva, rendendolo pressochè impossibile da seguire anche ai suoi adepti più adeptosi. E allora, a chi sarebbe saltato in testa di riprendere in mano un proprio album e riprodurlo in versione dub sette anni dopo, lasciando probabilmente piatti e mix per stare sul mojito e lasciare che i suoi ospiti ritracciassero le tracce di un tempo? E, soprattutto, farlo dopo aver rimesso insieme per la millesima volta i Culture Club con un album nemmeno tanto scalcinato, anzi? A lui, appunto. Però dobbiamo anche dargli atto che “This is what I dub” era stato annunciato nel 2015, poi magari chissà, se lo sarà dimenticato, vai te a capire. Comunque sia, si tratta come detto della revisione in ultrareggae di un album che già reggae era, esplicitando la lentezza dei bassi e tutta una serie di cose che forse lo renderà l’ideale come sottofondo per i baretti di tendenza e gli aperitivi, quando sarà possibile tornare in giro (scrivo infatti in epoca di quarantena). Quindi, chiudiamo subito il discorso, anche se la curiosità di sentirlo lagnarsi assieme a Sinead O’Connor su un antico brano di Yoko Ono vale il prezzo del biglietto a prescindere: questo è un album per riempire la collezione, e niente altro. Come quando con le figurine Panini cercavi sì Zico e Maradona, ma poi ti serviva anche Totonno Logozzo per finire la questione. In alto il cocktail, comunque. (Enrico Faggiano)