ALANGRIME  "Colpogrosso"
   (2020 )

La musica può essere un pretesto per prolungare le emozioni provate nel dipingere astrazioni. Un modo per colmare le profonde mancanze che ci si porta dentro. Una musica con testi che parlano di quotidianità, quella nuda e cruda di tutti i giorni. “Colpogrosso” è un concetto che, oltre ciò, include una forte componente erotica. Evocata dal musicista/artista visivo Alangrime, in musica ed in arte, ispirandosi a quel programma televisivo degli anni ottanta del secolo scorso che, per la prima volta, introdusse tale denominazione. Un concetto integrato dall’artwork della cover, raffigurante una ciambella donut che si libra nello spazio, rimandando la mente, caoticamente, ad una navicella spaziale, a un pianeta o anche ad un oggetto sessuale dei desideri. E’ un album autoprodotto. Il primo da solista di Alangrime, dopo la precedente esperienza nei disciolti Nervovago. A differenza del precedente progetto, più frenetico e denso di sonorità distorte e rabbiose, questa dimensione musicale passa dal rock solo per evidenziare le varie venature rap e trap, con qualche ammiccamento industrial. L’utilizzo di sintetizzatori e drum machine fanno da padroni in ambientazioni apocalittiche che, generalmente, sanno di delusioni, frustrazioni, dolori d’anima. Ma anche di erotismo disperato. Tappeto sonoro suggestivo e ricorrente in tutti i brani è l’avvolgente suono distorto a frequenze basse, che pare guidare le parti vocali cantilenanti e caduche, in dispregio di tutti i tecnicismi canori, verso l’inferno. Ci sono assonanze anche con qualche interessante produzione del passato. E’ il caso di “Metti che nevica solo per noi”, con quell’ossessivo “là fuori non c’è più niente per me”, che sembra trafugato a qualche ambientazione infernale dei Nine Inch Nails dei primi tempi. In ogni modo, “Marziana” è il primo singolo e primo brano dell’album. Carico di pathos carnale, con un cantato che va collassando man mano che si avvicina al primo attacco ritmico. “@Valenappi” e “Dreamramen” giocano con strofe infilate in serie su beat e ritmiche marcate, come se vivessero in ambientazioni lisergicamente trap. “Crudimècruditè” ha una certa azzeccata distorsione di fondo, con intenzioni utili per suggestioni di carattere hard-rock punk. Poi “Disco volante” e “@Emrata”, entrambi col loro sentimentalismo malato, a metà strada tra l’accorciare le distanze del se “stasera ti va di stare male con me” e la voglia di difendersi “da tutto questo ma proprio non ci riesco”. Il resto dell’album ripercorre sostanzialmente le stesse linee liriche e musicali. Così “Plutone”, con marginali sonorità a tratti cariche di reverberi e delay, e “Guernica”, ossia la messa in opera di un’apocalisse dimensionata. A chiudere l’album “Massera” e “Unicorn”. La prima con una interessante variazione in parte finale, in memoria di qualche passaggio distruttivo tipico dei Verdena di “Requiem”, la seconda, a metà tra un trap e qualcosa di più forte, con un finale urlato e poi domato da un “vieni Marziana a me”. Quella Marziana del primo brano. Dunque questo di Alangrime, complessivamente, è un album poliedrico, nel bene e nel male. E come tutti gli album di esordio, accetta il rischio di sottoporsi all’analisi delle varie fazioni di ascoltatori. Non è rock, non è trap, non è rap e non è industrial. Include un po' di tutto ciò. E come tutto ciò che è “un po' di tutto” può incorrere in problemi. Proprio come diceva quel Morgan dei Bluvertigo, ai tempi d’oro di “Metallo non metallo”, in quel brano perla che è “(Le arti dei) miscugli”. Ove profetizzava che “tutto è tutto, vuol dire tutto, quindi anche brutto”. Alle fazioni l’ardua sentenza. (Vito Pagliarulo)