UBBA BOND  "Mangiasabbia"
   (2020 )

“Mangiasabbia” è un disco bipolare.

Come suoi i autori. Ma forse no.

Orbene: non più tardi di sette giorni fa, a proposito del debutto di Vigo su queste stesse colonne ci si imbarcava in una digressione a proposito dei cantautori. Quelli nuovi, quelli vecchi, che cosa ancora c’è da scoprire in questa veste magari desueta, ma no, cosa dici, c’è vita sotto la cenere, bisogna trovare una chiave di lettura per calarsi nella parte, ecc.

Quindi: ammesso e non concesso che si tratti di cantautorato, l’arte varia impacchettata in “Mangiasabbia” - intitolato alla memoria di Daniel Cau, musicista cagliaritano recentemente scomparso - cosa reca in dote che non sia già stato portato da altri? Un’ipotesi: l’indole visionaria. O ancora: l’imprevedibilità. La terza: lo squilibrio. Infine: la poliedricità.

Non starò quindi ad ammorbarvi col racconto delle gesta e dell’onorata carriera del bolognese Guglielmo Ubaldi, in arte Ubba, e della sua fruttuosa collaborazione con Andrea Bondi, in arte Bond, sodalizio varato nel 2012 e proseguito fino ad oggi con queste dodici tracce (alcune delle quali già pubblicate a partire dal 2013) che spingono un metro più in là il mestiere di cantastorie, che se non è il più antico del mondo arriva almeno nei primi dieci.

Non di sola musica vive Ubba - laureato in Ingegneria Informatica, per gradire - ma anche di comicità: in una delle sue vite parallele è uno stand-up comedian, fondatore del collettivo “La Factory di Renato Tabacchi”. In una vita parallela di una vita parallela ha pure creato l’etichetta discografica Foreign Man Records con lo scopo di concedere spazio alla pubblicazione di lavori realizzati da altri stand-up, tra i quali citiamo almeno Stefano Podda per lo split in vinile in edizione limitata del 2018 (“Pomelli” e “Le rane saltarono”).

Schizoide e disallineato, spesso tentato dal ricorso ad un amaro e paradossale humour di fondo, “Mangiasabbia” oscilla così agilmente tra lunghe ballate elettriche, suggestioni free-form, sketch surreali: “Girasoli olandesi” spinge per sei minuti a passo squadrato su un solido telaio di rock canonico, lasciando che ad occupare la seconda metà del pezzo sia un robusto solo di chitarra; la dolente “Sale”, affidata ad un pianoforte aspro e pungente, si concede un canto sbracato à la Rino Gaetano steso su un testo immaginifico che cita Döblin en passant; il racconto a due voci della folle love-story di “Sushi” e soprattutto l’irresistibile beat di “Filo interrotto” sono soltanto brandelli sparsi di questa pièce inspiegabile e godibilissima che ti inghiotte e ti risucchia in un mood allucinato.

Ma non allucinato-tipo-strafatto: più allucinato-tipo-alticcio. Ecco: allucinato-tipo-simpatico.

Un disco insolito, a suo modo opulento nell’ammannire una rappresentazione bizzarra quanto basta a sorprendere e coinvolgere: un’ora folgorante e spiazzante che azzarda perfino con inusitata veemenza trame indie, come nei sette minuti di “Temporeale”, cavalcata à la LCD Soundsystem spezzata dall’impersonale claim “most people recognize me by my voice”, o nell’up-tempo garage di “Sake”, strumentale nervoso ad esorcizzare il diluvio di parole piovute fin lì.

Nello scrigno di Ubba & Bond è racchiuso questo ed altro: il solipsismo intimo di “Aprile” che si attorciglia tra le spire di un accompagnamento nervoso di sola chitarra in crescendo; il narrativo di Max Guidetti in “Su milioni di auto” (testo liberamente tratto da un suo stesso racconto) con ampio finale orchestrale dall’afflato quasi cinematografico; l’incalzante passo scenografico à la Massimo Volume – non trovo lusinga più adatta – della sopraffina “Bob”.

Ieri porterò il cane al mare/sempre che abbia voglia di mangiare/domani ho fatto un errore/mai avuto un giorno migliore”: è l’incipit di “Piove il mondo”, che chiude sul suo quattro quarti ruvido digradante in squarci di reggae un album la cui bellezza risiede in una insistita, curiosa, intrigante inafferrabilità.

Le mie poesie si sono smarrite/nei vicoli angusti del mio cuor”.

Dal faceto al serio, è tutto un attimo.

Bipolarissimo. (Manuel Maverna)