MATTEO MUNTONI  "Radio Luxembourg"
   (2020 )

Una volta, prima dell’avvento del rock’n’roll, era Radio Luxembourg, piccola emittente pirata che, per aggirare la legislazione inglese, trasmetteva e propagandava clandestinamente programmazioni musicali d’avanguardia, da una nave ancorata in acque extraterritoriali. Quando c’era sete di scoperta musicale. Al di là dei prototipi proposti ed imposti a quel tempo. Ed ogni tempo ha i suoi prototipi musicali proposti ed imposti. Sicché il bassista, compositore e sound artist Matteo Muntoni, con una consolidata esperienza musicale, attivo anche come artista visivo, partendo da tal concetto, coglie occasione e crea il suo congegno di espressione musicale. E lo fa proponendo una fusion elaborata e mirata ad ascolti certamente non superficiali. E lo fa proponendo un insieme di generi, nei sette brani che compongono l’album, legati tra di loro dal filo logico della contaminazione, dell’influenza musicale. Ed ogni brano ha come spunto cose, eventi, persone che hanno influenzato musicalmente il musicista, nel corso degli anni. Tenendo fede ad una certa idea musicale inclusiva di varie sfaccettature. Partendo dal brano finale della set-list, “Werewolf Cricket”, quello più interessante della produzione, si nota come questo concetto si presenta in realtà e le strutture rock progressive ne confermano l’essenza. Strutturalmente è un crescendo ritmico melodico che va a creare un quadro composto da partiture, assoli e posizioni in diminuta settima, tutte conducenti ad interessanti cose di zappiana memoria. “The man and the jurney” è un’altra interessante idea musicale che ha affinità con altri mondi musicali. Ci porta innocentemente e per qualche frazione di secondo verso l’intro di “#41” della Dave Matthews Band (a parte il ritmo più sostenuto e la batteria di Carter Beauford). Nesso interessante che poi prende il largo e si stabilisce su altro tema incalzantemente rock, con tanto di overdrive e guitar solo in evidenza, entrambi a meglio scandire il mutamento. Al terzo posto troviamo “Dust and guitars (full)” che è un brano fusion consistente, di buona tenuta, un caso di scuola (come si direbbe in altre discipline). Un brano in cui c’è ampio margine per le parti soliste e per le divagazioni mentali dell’ascoltatore, abbastanza per assimilare i colori dei contesti melodici. Insomma un bel risultato compositivo, coi suoi 08min24 di durata. “The jellyfish dance”, come ogni danza che si conosca, scherza col sound e lo ripropone in varie sfumature. Qui c’è un po' di progressive, un po' di fusion, con qualche accenno di rockeggiante fattura. “On the moon” invece è la composizione che apre l’album e già incuriosisce per un arpeggio di chitarra acustica a posizioni aperte, supportato da un giusto tappeto sonoro e da una drum machine in sottofondo. Sfociante in una ritmica spedita, con lo spuntare di un vibrafono in evidenza. La titletrack ha come caratteristica la parte di basso che il Muntoni marca, giustamente, e la trasforma in un prolungamento della bass drum. Ossia in una parte strutturale percussiva. Più ritmica di quello che dovrebbe normalmente essere. E lo fa bene, fino alla variazione, questa più melodica. Infine c’è lo scherzo che l’artista gioca all’ascoltatore, quel “There’s no time” di un minuto in cui c’è l’assoluto silenzio. Sommariamente questo è un album stilisticamente ben equipaggiato e vanta altresì la presenza di collaborazioni importanti, come Stefano Battaglia e Massimo Bubola. Meriterebbe un ascolto ampio e sarebbe da consigliare anche alle radio mainstream, non solo per la consistenza dei contenuti, ma soprattutto al fine di abituare il pubblico profano alla profondità dei generi, alla vastità, anche alla complessità. E “Radio Luxembourg” è un assaggio di gran parte dei generi moderni. Insistere con tali programmazioni radiofoniche sarebbe dunque didascalico, sarebbe utile al fine di destare l’interesse soprattutto di quella parte di pubblico (distratta e non) che si accontenta solo e ancora si assopisce davanti al festival di Sanremo. (Vito Pagliarulo)

Vito Pagliarulo