THE SOMNAMBULIST  "Hypermnesiac"
   (2020 )

Di difficile decrittazione, eppure suadenti ai limiti di un’ascosa morbosità, The Somnambulist sono un trio italo-tedesco di stanza a Berlino, act di (quasi) impossibile definizione, inquadramento, classificazione. Abitano fin da “Moda borderline”, esordio del 2010, un non-luogo che è un buco nero del rock tutto, un’Atlantide incollocabile sulle mappe concettuali di critici, appassionati, esploratori.

Nel 2017 non mancarono di impressionare con il monumentale – in ogni senso – “Quantum Porn”, loro terzo album ed opera ponderosa dalle molte sfaccettature, meritevole di reiterati riascolti per lasciarne emergere la sottesa stratificazione e poterne cogliere gli infiniti preziosismi.

Fondamentalmente colti, cerebrali ed inafferrabili, il cantante e chitarrista Marco Bianciardi (unico rimasto della formazione originaria), il bassista Thomas Kolarczyk (sostituito da Isabel Rößler ad album concluso) ed il batterista Leon Griese gravitano attorno a strutture inusuali e frastagliate; attraggono in virtù di trame mesmerizzanti costruite su dinamiche e tessiture armoniche non lineari, su ritmi zoppicanti, su suoni avvolgenti e su una durezza sottile – paradossale, no? – che depista e confonde.

Per la gioia di chi si accosti al loro culto, è arduo ogni paragone, forzato ogni accostamento: forse Bowie, forse qualcosa dei Bauhaus, forse i Primus, o i Battles. Forse un’idea di post-punk che è ancora oltre il post, o forse nulla di ciò.

La voce di Bianciardi assume svariate sfumature – baritonale, maniacale, gelida, inquieta, minacciosa, conturbante – mentre ipnotizza e prende per mano composizioni che gravitano essenzialmente attorno all’elemento ritmico, seppure travalicando i ristretti confini della musica in sé, facendo della ricerca(tezza) espressiva un crisma distintivo.

Sono canzoni complesse – nel concept, nei contenuti, nel disegno generale che le accomuna - travestite di solo apparente disponibilità al compromesso, brani che hanno l’eleganza formale e la profonda nobiltà dei Japan, unite alla medesima vocazione elitaria e ad uno scavo esistenzialista mai trascurabile. La cura per il dettaglio e l’estrema compiutezza delle rifiniture definiscono le sette tracce di “Hypermnesiac” (pubblicato per la Slowing Records, etichetta di proprietà della band), tra suggestioni ipnagogiche, retrofuturismo, attenta riflessione sulla condizione umana ed un mood policromo, cangiante e mutevole.

I sei minuti di “Film” aprono l’album con note distillate di pianoforte sulle quali il crooning di Bianciardi ricama un’aria melanconicamente tesa à la National, una melodia afflitta che procede circolare e sorniona, notturna e contrita, mentre segue l’intreccio della sezione ritmica. Intriso di un pessimismo oscuro, “Hypermnesiac” affida il suo messaggio di ragionata, fosca amarezza a “No sleep until heaven”, sorta di funk bianco in veste sintetica, o alle geometrie incalzanti di “Doubleflower”, sposando sì la forma-canzone, ma talvolta rifiutandone esplicitamente l’immediatezza.

I primi tre brani sono attendisti, quasi una prova generale prima del trittico che riporta tutto a casa: la lieve allure snobistica non impedisce di soffocare l’emotività pura e cristallina di quel piccolo, raccolto capolavoro che è “No use for more”, o dell’ingorgo psych della successiva “At least one point in which it is unfathomable” – incalzante, ossessiva, penetrante - o ancora di quella specie di blues truccato à la Morphine che è “Tom’s still waiting”, percorsa da scariche nervose, dal caracollare svagato del basso, dagli arpeggi accorati della chitarra.

E’ il climax di una tensione che digrada nel jazz spurio della conclusiva “Ten thousand miles longer“ (su “Quantum porn” c’è un brano dal titolo “A ten thousand miles long suicide note”), otto minuti strumentali in bilico sul nulla in un crescendo forsennato e stordente, convogliato in una velocizzazione apparentemente sospesa che è sublime epilogo e muta promessa sibillina: è forse il solo possibile epitaffio di un lavoro che ribadisce l’enorme caratura di un progetto destinato all’estatico rapimento di chiunque abbia avuto o avrà la passione e la pazienza adatte da dedicargli. (Manuel Maverna)