RADIOHEAD  "Kid A"
   (2000 )

Dopo un disco come “Ok Computer” è difficile migliorarsi; ascoltando “Kid A” appare chiaro che Thom Yorke la pensasse proprio così. Le prime note dei Radiohead nel nuovo millennio sono quelle del piano sintetico che dipinge “Everything In Its Right Place”, qualcosa di formalmente molto distante dai lavori precedenti anche se il mood rimane quello depresso e psicotico di prima. È difficile valutare un disco come questo, si rischia di elogiare la band per il solo fatto di aver cambiato stile, ma questo non è un fatto positivo in sé, ma solo una semplice decisione, un cambio di rotta che può portare ad esiti positivi come negativi. Al primo impatto l’uso dell’elettronica sembra impoverire il suono del gruppo; si sente la mancanza della voce di Yorke che è sempre stata fondamentale nell’economia dei cinque. Canzoni come l’opening o la successiva title track sono difficili da digerire. Difficili perché assomigliano a corpi mutilati, a sculture deturpate. L’ascolto naufraga, strangolato da un’intensità psicotica quasi insopportabile. Si avverte una certa maniacalità nelle composizioni, un ossessione che aleggia nell’aria e va a scolpire uno stato dell’anima più che un concept sonoro. Ed è proprio per questo che l’opera si eleva molto in alto. “Everything In Its Right Place” è l’incipit; un horror vacui che lacera la mente; la ripetitività del canto, i suoni sintetici che ricamano con violenza il tessuto limpido iniziale ed il climax emotivo confluiscono in un qualcosa di sottile, invasivo e sconfortante. Siamo a livelli espressivi incredibili; ci troviamo di fronte ad una sorta di collage emozionale; una sorta di ricerca affannosa di qualcosa che non esiste. “Everything In Its Right Place”. La forza di questo lavoro non sta affatto nello sperimentare, nella ricercatezza musicale, bensì nell’intensità struggente e nella comunicatività che i Radiohead sanno creare con suoni elettronici. “Kid A” ne è la prova; un carillon fanciullesco, un fitto intrecciarsi di motivi semplici che danno forma ad un teatrino dell’assurdo, così subliminale da rimanere ancora velata da un’aura di mistero. Quello che convince ancora di più che il valore dell’album non sta nella semplice elettronica è dimostrato da brani come “The National Anthem”, “How To Disappear Completely” e “Optimistic”, originali ma non così elettronici. La prima è uno stralunato inno alla follia; un giro di basso poderoso, una ritmica sfinente ed un affollarsi di eco gelide. La struttura atipica del brano non nasconde la sua maggior fruibilità rispetto ai primi due; siamo distanti dalla semplice elettronica, come dal rock. Siamo in una terra di nessuno dominata dal subconscio. In fondo il vero scopo di “Kid A” è dare voce a ciò che non l’ha, di mostrare l’anima nascosta di ognuno di noi. Siamo di fronte all’alter ego dei Radiohead. Il finale rumorista, splendidamente fastidioso, è l’apoteosi di questo movimento. L’antitesi di tutto ciò che la band era stata fino a quel momento. È chiaro a questo punto che il cambiamento di rotta non è un semplice capriccio, ma una scelta coerente e ben articolata. A conferma del fatto che il gruppo ci voglia portare “sul lato oscuro della luna” troviamo la splendida ballata “How To Disappear Completely”, doloroso salto al di fuori dello spazio e del tempo. Il manifesto della filosofia dell’opera è “I’m Not Here, This Isn’t Happening”. Dopo la pausa di “Treefingers”, ci attende la splendida “Optimistic”, molto meno criptica delle altre canzoni, è un affascinante rock scolpito nel vento, una rivisitazione dei Radiohead del passato, visti da un ottica pressoché opposta. Il momento più estremo è forse rappresentato da “In Limbo”, una sorta di danza stonata, volutamente disorganica, a conferma di come il gruppo cerchi sempre ciò che non è ad esso congeniale. Il trittico finale è quello più prettamente sperimentale; la dance glaciale di “Idioteque”, gradevolissima digressione rispetto al suono dell’album, è una delle canzoni più carismatiche, grazie anche alla prova eccelsa di Yorke con il suo canto sfrenato . “Morning Bell” è un altro episodio di negazione dell’ego, una continua rincorsa al vento; i brani di questo disco prendono forma dal nulla, sono sculture estemporanee, finalizzate a descrivere uno stato d’animo più che a raggiungere una perfezione formale, che manca regolarmente e volutamente. Il finale malinconico è affidato agli archi ammalianti di “Motion Picture Soundtrack”, splendida conclusione per un album ambizioso, difficile e stupendo. È chiaro che “Kid A” non è solo uno splendido atto di rinnovo e rivolta; quello a cui assistiamo è una costante ricerca dell’indefinito, la negazione di ogni certezza. Queste dieci canzoni tentano di dare un suono all’anima, a ciò che si nasconde dietro le apparenze. Non posso dire se ci siano riuscite o meno, ma il semplice tentativo merita l’eternità. (Fabio Busi)