LAND OF KUSH "Sand enigma"
(2019 )
L’orchestra di Sam Shalabi, i Land of Kush, tornano dopo l’esordio con “The Big Mango” del 2013. Quel primo lavoro fu scritto durante le cosiddette Primavere arabe, quel periodo nel quale dal 2011 in molte nazioni mediorientali ci furono grandi rivoluzioni e speranze di modernizzazione, contro le tirannie. Sappiamo bene purtroppo come sono andate le cose, e quest’album “Sand Enigma” (appena uscito per Constellation Records) riporta in musica tutta la delusione, storica e umana, la disillusione. Come in quel noto aneddoto di Beethoven, che cancellò il nome di Napoleone dalla Terza Sinfonia a lui dedicata, dopo aver visto cosa era diventato il suo beniamino politico. La devastazione che ha scosso il Nord Africa non ha lasciato indifferente il compositore, canadese di origine egiziana, e le musiche di quest’album sono espressività di questo disorientamento, fatto di speranze tradite. La musica non si presta ad etichette di genere, ma in questo caso il melting pot non sembra comunicare un’utopia interculturale, una di quelle ibridazioni che forniscono una nuova identità, ad esempio, ad un gruppo etnico immigrato in un altro paese. Al contrario: il miscuglio qui fa perdere i riferimenti, in maniera distruttiva. In “Aha” ad esempio, ritmica e voce ben presto si sfaldano, dando l'idea di qualcosa che va in pezzi, si sbriciola; i fiati cercano poi di ripristinare il groove insieme, ma devono aspettare che sia la batteria a concedere loro un ritmo dritto. I rumori psichedelici e distorti continuano a disturbare il tentativo di ripresa. In “Domyat 1331”, da iniziali note staccate si raggiungono legati sempre più ossessivi. I cori diventano gradualmente dissonanti, fino a prorompere in urla lancinanti. Senza appiglio di basso, parte da sola la batteria in un twist completamente fuori luogo, mentre il sax continua a improvvisare con approccio free accanto alle grida. La voce femminile, che appartiene a Nadah El Shazly, diviene protagonista centrale in “Safe space”, ma tesse una melodia tanto inafferrabile quanto dolorosa. Con “Broken Maqmas”, dopo l’introduzione noise si entra in un clima del tutto arabo, fra le percussioni e il violino che segue la scala microtonale. Le percussioni proseguono imperterrite anche sotto l’assolo di flauto, che lascia spazio alla fine a una litigata violenta fra archi, che fanno sentire la propria legnosità. La titletrack inizia come swing ma finisce con un folgorante accelerato punk. Il picco di disperazione si raggiunge forse con “Ssssss”, fra lamenti vocali e lamenti di sax, assieme a rumori elettronici taglienti. Il tutto viene placato dagli arpeggi romantici di una chitarra acustica, che ci porta a “Recuerdo”, dove la voce di Nadah, sempre sofferente, ci regala però una melodia meno aspra, sopra un suono statico, cangiante di colore. Un pezzo sognante, in mezzo a incubi e realismo. “Bone Mass”, divisa in tre parti, è un granguignolesco palcoscenico, mentre una pausa per arpa si realizza in “Ana”. “Trema” ci riporta chiaramente a quello stile monofonico delle orchestre tunisine ed egiziane, dove strumenti e voce seguono pedissequamente la stessa melodia. Almeno fino al momento della liberazione di fiati e synth. “Dol” interrompe questi coriandoli di note, col maltrattamento brutale di un violoncello, suonato come un falegname farebbe con la sega, almeno fino al primo minuto; poi si ricompone, per accompagnare la voce. La chiusura di questo viaggio nel deserto e nel tormento è affidata al sassofono di “Tensor”, che scivola rapido sulle percussioni e sul fondo elettronico nasale, arrivando da solo alla fine e non intenzionato a fermarsi per un bel po’, fino a spegnersi nel nulla. Il nulla lasciato dai fallimenti della Storia. Grande testimonianza musicale e umana, questa dei Land of Kush. (Gilberto Ongaro)