MATANA ROBERTS  "Coin coin chapter four: Memphis "
   (2019 )

Matana Roberts continua il suo viaggio nella cultura musicale afroamericana che l’ha formata e cresciuta e nella storia della sua famiglia attraverso il quarto capitolo (appena uscito per Constellation Records) di un’opera ambiziosa, complessa e così ampiamente sfaccettata com’è “Coin Coin”.

Con il quarto capitolo del suo mastodontico progetto, eversivo e iconoclasta, profondamente radicato nella ribellione e nella reinvenzione continua che è insita in tutta l’arte musicale afroamericana, in particolare in quella commistione di free-jazz, avanguardia e spoken word cui l’artista guarda con un’ammirazione enorme, Roberts procede con convinzione e sicurezza in ciò che Pitchfork ha definito «one of the most provocative ongoing bodies of work by any American musician». I tre capitoli precedenti della serie, infatti, sono tre dei più affascinanti album jazz – ma parlare soltanto di jazz è riduttivo, e vedremo più avanti perché – dell’intero decennio insieme a quelli pubblicati da Kamasi Washington.

Non è facile, per questi motivi, trovare un progetto simile – nato già da molti anni, che ha portato tre pubblicazioni, quattro con questa, di altissimo livello e di qualità eccelsa – nella pur vitalissima e ampia scena artistica afroamericana attuale. Matana Roberts, ispirandosi a Ornette Coleman, ai Last Poets di Gil-Scott Heron e all’avanguardia black dai Settanta in avanti, e basterà qui citare un nome come quello di Julius Eastman, riesce a coniugare qualità musicale e profondità di scrittura, anche testuale e lirica, in un universo dove la narrazione non è mai in secondo piano rispetto al lato strumentale e a quello di canto-recitazione.

L’album offre spunti e riflessioni profondi. Il free-jazz coniugato con esperimenti vocali degni quasi di una Meredith Monk e momenti che guardano palesemente a Beaches Brew di Miles Davis sono dominanti in “As Far as Eyes Can See”, “Trail of the Smiling Sphinx” e “Wild Fire Bare”. “Shoes of Gold” continua a guardare all’etnografia e alla storia afroamericane con un occhio sognante e idillico, in una ricerca costante di purezza e sperimentazione coraggiosa e appagante. Roberts è uno spirito inquieto che cerca di rendere giustizia alla sua enorme ampiezza di vedute, e riesce pienamente a coniugare gli opposti che ha in lei.

I cori influenzati dal gospel di “Her Mighty Waters Run”, celebrazione della voce nera e ancor più del corpo nero sradicato e costantemente sfruttato, specialmente quello femminile, si incanala in una sorta di coro da corteo funebre della Louisiana, che avrebbe potuto raccontare nei massimi particolari Jelly Roll Morton durante le sue conversazioni con Alan Lomax per la Library of Congress. O, anche, i canti sofferenti ma pieni di ironia e di speranza che un giovane Leadbelly, a pochi mesi dallo scoccare del 1960, registrava per la Smithsonian.

Matana Roberts, pur lasciando il jazz al centro del discorso, offre una varietà musicale filologicamente perfetta, da lasciare a bocca aperta chi ascolta. A tratti gli spirituals emergono, a tratti il blues diviene il protagonista, mentre la spoken word, l’avanguardia e il gospel continuano a tessere una lunga striscia di collegamenti sotterranei che ricollegano il progetto Coin Coin con l’inizio di tutto, con i canti intonati dai neri nei campi di cotone nell’Ottocento, con la Underground Railroad attraverso la quale tanti riuscirono a liberarsi dalle violenze giungendo nel Canada da poco liberato dalla tragedia della schiavitù, a celebrazioni della cultura nera d’America di film recenti già diventati di culto come 12 Years a Slave (2013) e Moonlight (2016).

Roberts è, sia ben chiaro, un’autrice contemporanea, e per questo guarda con fascino e curiosità l’hip-hop, il neo-soul e la neo-R&B che hanno dominato questo decennio negli USA e che emergono in brani come “All Things Beautiful” e “In the Fold”. La liberazione finale di “How Bright They Shine” permette alla tradizione di abbracciare pienamente, con concordia e coerenza, la contemporaneità, dove, per dirla con le parole di altri due grandi che questo decennio musicale l’hanno scritto, «everything», non senza difficoltà e lotte, «gonna be alright», come proclama Kendrick Lamar in “Alright”, in un panorama fluido e complesso dove, però, le radici scorrono profonde, le «roots run[ning] deep» che canta Frank Ocean nella sua “Futura Free”. Con i quattro capitoli di Coin Coin, progetto che speriamo non finirà qui, anche Roberts ha segnato a suo modo il decennio attraverso un genere che non è mai solo jazz ma esplora la cultura black in ogni sua singola forma. (Samuele Conficoni)