IVANO FOSSATI "Lindbergh (lettere da sopra la pioggia)"
(1992 )
Chissà quale oscuro dirigente dell’Ulivo avrà avuto la brillante idea di scegliere “La canzone popolare” come inno della coalizione di centrosinistra… Bè, chiunque sia, è riuscito a beccare l’unico brano ordinario di un autentico capolavoro della maturità musicale di Ivano Fossati, dimostrando ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la sordità dei politici è un dono innato e più o meno trasversale. “Lindbergh – Lettere da sopra la pioggia (1992)” è l’ulteriore conferma di un Fossati nella sua migliore stagione creativa. La scomparsa di certe pretese letterarie lo fa preferire a “Discanto”, e l’unica macchia è proprio la famigerata “Canzone popolare”, filastrocca abbastanza banale e ripetitiva, che ha come unico merito (o demerito, a seconda dei punti di vista) di aver fatto da portafortuna a Prodi nel 1996. La sua posizione all’inizio del disco permette all’ascoltatore di levarsela subito di torno per immergersi nel clima più intimo e raffinato, tipicamente fossatiano, fin dal brano successivo, “La barca di legno di rosa”, testo zeppo di intricati simbolismi, musica estremamente elegante e discreta, con in grande evidenza un’arpa celtica degna della migliore new age, che nel finale si scatena in virtuosismi da applauso, al punto che è d’obbligo citare l’ottimo Vincenzo Zitello, raro esemplare di arpista maschio. Fossati ha già quella tipica passione per la world music che troverà la sua esaltazione nel successivo “Macramé”. Proprio l’episodio più etnico, “Mio fratello che guardi il mondo”, è anche una delle vette più alte del disco. Già di per sé bellissima canzone lenta, ha in più il tocco di grazia delle percussioni di Trilok Gurtu (tra cui la tipica tabla indiana) impegnate in un affascinante e fitto dialogo con una nitida e occidentale chitarra acustica. L’ascolto è un vero giulebbe, e una volta tanto anche il testo, oltre che significativo e profondo, è piuttosto comprensibile. Altro gioiello è “Sigonella”, canzone d’impostazione più classica, con pianoforte iniziale alla Elton John e partenza un po’ in sordina, ma con un’impennata centrale lancinante, che lascia senza fiato, sottolineando la “disperata speranza” del testo (“se questa terra smettesse di affondare…”). Difficile trattenere le lacrime. Con “Notturno delle tre” è di nuovo goduria: qui Fossati si dimostra capace di regalare pure sensazioni jazz degne di Paolo Conte, anche grazie all’uso sapiente di limpide note di pianoforte. Quest’ultimo ormai da diversi album ha sostituito la chitarra come suo strumento prediletto. “La Madonna nera” accosta un testo enigmatico e comunque dissacrante ad una musica cupa e misteriosa, ricca di effetti speciali tastieristici. Non è facile trovare due canzoni antimilitariste nello stesso disco: ebbene, “Lindbergh” ha anche questo merito. Una, “Il disertore”, è la traduzione di una poesia di Boris Vian, dalle parole caustiche, qui cantata con uno scarno accompagnamento di chitarra. L’altra, “Poca voglia di fare il soldato”, ha un testo molto più gentile, e anche la musica stessa, con il pianoforte e un prezioso assolo del flautino, sembra rievocare epoche e guerre lontane, ma il sacrosanto principio resta lo stesso. “Ci sarà (vita controvento)” è l’unico brano dalla ritmica battente, ma è impreziosito da un intervento virtuosistico di chitarra acustica e da un bel testo che incoraggia alla speranza chi vive “contro le regole del branco”. Chiude questo stupendo album “Lindbergh”, breve momento di riflessione sul mondo visto da un aereo. Viene spontaneo un confronto con quella specie di precedente che è “Il pilota” (da “Ventilazione”): “Lindbergh” pur nella sua sintesi è comunque molto più onirica e fin dalle prime note ci impone un’atmosfera gelida e rarefatta, portandoci nella cabina di un vecchio aereo, molto vicini alle stelle. Che poi, se vogliamo, è un po’ lo scopo dell’intero disco. (Luca "Grasshopper" Lapini)