THE MAGIC DOOR "The Magic Door"
(2019 )
Con The Magic Door, la regista cinematografica Giada Colagrande e il cantautore Arthuan Rebis, affiancati dal polistrumentista Vincenzo Zitello e dal percussionista Glen Velez, danno vita a un disco d’esordio self-titled ispirato alla Porta Magica di Roma, straordinario monumento alchemico. Il risultato è inaspettato e coinvolgente.
Il progetto Magic Door, vivace e accattivante, riesce a conquistare sin dalle prime note. Alcuni dei sette pianeti, quelli che il marchese che costruì la porta decise di incidere in essa, diventano in parte i titoli della maggioranza dei brani. Il disco crea immediatamente un senso di esotico e inquieto, quando l’intro dell’album e “Saturnine Night” danno vita a sonorità jazz sognanti e ipnotiche. La melodia insegue forsennata quel senso di precarietà, incantesimo e soprannaturale che caratterizza l’album e l’intero concept della porta alchemica. Chi vi è scomparso attraversandola ricompare, in un’altra forma e dimensione, nelle note di questo disco, stregone, filosofo, anima inquieta e sapiente.
“Jupiter’s Dew”, con il duo di voci – femminile e maschile – che si intrecciano su arpeggi di chitarre classiche, violini gitani e atmosfere orientali, ricorda addirittura – nella melodia e non nell’arrangiamento, ovviamente – il Nick Cave delle Murder Ballads, anche se il genere è prettamente quello della world music. Un’altra riflessione di questo tipo, con andamento orientaleggiante e impianto, però, strettamente folk, è aperta da “Water of Mars”: un senso di mistero insolvibile e oscuro avvolge tutte le canzoni, fornendo al disco una patina di intangibilità che l’intimismo di “Venus the Bride”, interpretata quasi come fosse un pezzo del disco d’esordio di Nico, la cui melodia ricorda addirittura “Stairway to Heaven” e sembra anzi esserne una libera rilettura, aumenta a dismisura.
Nella seconda parte questo senso di precarietà e indecifrabilità non viene mai meno. “Ancient Portal”, per sole percussioni, conduce in un’altra dimensione, più interiore e astratta, lontana dal materiale e dal concreto. Questa conduce direttamente nella splendida, ancora a due voci, “Mercury Unveiled”, una delle gemme del disco, ancora estremamente “nichiana” nell’interpretazione e nell’arrangiamento, mentre decadenza e fasti si incrociano violentemente nell’ottima “Sun in a Flame”, che pare un pezzo dei Dead Can Dance e dimostra, casomai ce ne fosse bisogno, quanto siano ampie le fonti d’ispirazione dell’ensemble. “Vitriol”, di nuovo a due voci, ritorna nei ranghi del folk mantenendo però quell’impostazione orientaleggiante che per il mondo occidentale significa mistero, magia, alchimia, e che l’epilogo, forse invocazione a qualche divinità, richiesta di occulto intervento dall’alto o dal basso, completa perfettamente, mantenendo tutto splendidamente in sospeso.
(Samuele Conficoni)