LA JANARA "Tenebra"
(2019 )
La Janara sono in quattro. Arrivano dalla provincia di Avellino, non da San Diego, California.
Fanno – o meglio, facevano – metal. Lo cantano in italiano, come i Colonnelli, che vengono dalla provincia di Grosseto, non da San Diego, California. E come loro sono credibili, nonostante la scelta di fondo sia ardua.
Portano un nome che indica, nell’iconografia dialettale dei loro luoghi di provenienza, una strega.
L’album – il loro secondo – si intitola “Tenebra”. Ha in copertina il particolare di un corpo femminile spogliato coperto solo da una testa di caprone, messa proprio lì.
Tra i brani, uno si chiama “Violante aveva un osso di capra”, un altro “Or poserai per sempre”, verso di “A se stesso” di Leopardi. Che insieme ad altri tratti dalla medesima poesia diventa il ritornello della canzone. Già per questo hanno tutta la mia personale stima.
Il primo singolo estratto dall’album è “Il canto dei morti”.
La cantante è una donna. I quattro portano nomi d’arte quantomeno singolari, in linea con il discorso complessivo. Precisamente: La Janara (Raffaella Càngero), Il Boia (Nicola Vitale), L’Inquisitore (Rocco Cantelmo), Il Mercenario (Antonio Laurano).
Pubblicano per la Black Widow Records di Genova, marchio di fabbrica.
Questi i dettagli, il seme della tentazione.
Poi c’è un disco.
Un disco sopra le righe, realizzato con scrupolosa cura per il dettaglio e per il senso generale del disegno. Occultismo e mistero in una narrazione visionaria, ma lucida. Mai incline al grandguignolesco o a scadere nel macchiettismo ad effetto. Un disco che conserva intatto il suo ancestrale paganesimo senza scivolare in eccessi da fumetto o in crassa blasfemìa, ché il passo è breve e qui i quattro si muovono sul filo del rasoio.
Legato a filo doppio ad un immaginario orfico intrecciato con miti, credenze e tradizione popolare, impasta un doom docile e ben più di una sfumatura prog, privata di pesanti arzigogoli manieristici, libera di vagare lungo un sentiero tetro e costellato di leggende, suggestioni, miraggi, paure.
Metal piuttosto classico nella forma. Levigato, dritto, pulito. Suoni rotondi, la sezione ritmica dritta nello stomaco. E una virata – si diceva – verso nuove contaminazioni, un linguaggio che ingloba italiche ascendenze di area progressive senza snaturarsi o perdere la bussola.
L’accoppiata di apertura “Malevento”/”Mater tenebrarum” è un uno-due micidiale: la prima ha un abbrivio che mi ricorda perfino i Litfiba di “17 Re”, la seconda è una martellata introdotta da un riff spesso e greve, buio e roboante. Ricerca la melodia, la afferra, non la lascia mai mentre mena fendenti impietosi ed imbastisce una narrazione tesa ed esoterica. Due sassate lanciate contro un muro. Con intro, strofa, ritornello, la batteria, il (contrab)basso, ecc.
La title-track si snoda austera su un arpeggio inquieto, la cadenza sinistra di “Cera” è un requiem luttuoso impaludato in gramaglie che odorano di morte e stillano dolore pulsante. Al bando l’inessenziale: ogni traccia evoca enigmatiche presenze, vibra di vita rovesciata, intrisa di una greve oppressione. Soffocante, ma curiosamente suadente, densa di fascino. Qualcosa di lontano, di irreale.
Dalla mitragliata assassina di “Mephis” alla spasmodica tensione che scuote la conclusiva “Ver sacrum”, precipitata in un gorgo mortifero che tutto risucchia, l’album chiede solo di accettare il patto di sangue, di raccogliere la sfida, di spostare lo sguardo altrove.
Domanda di lasciarsi ascoltare senza preclusione alcuna, con animo disposto ad accoglierne l’invito.
Socchiudendo l’uscio quel tanto che basta per scorgere uno dei tanti possibili abissi di cui ci nutriamo, volenti o nolenti. (Manuel Maverna)