STING "The soul cages"
(1991 )
Proprio in questi ultimi giorni (mentre scrivo siamo nel 2006) Sting si è inflitto una sana autopunizione per aver troppo cercato il facile successo di vendite con dischi non all’altezza della sua fama e soprattutto delle sue cognizioni musicali. E’ uscita una sua raccolta di ballate di John Dowland, compositore inglese a cavallo tra XVI e XVII secolo, in teoria un genere di musica pressoché invendibile, ma con il suo tocco da Re Mida non si può mai sapere. A dire il vero anche la scarpata che lo ha visto ruzzolare dal jazz-pop un po’ patinato ma intelligente di “The Dream Of The Blue Turtles” alla mediocrità di “Sacred Life” è piena di appigli, pietre sporgenti e cespugli ai quali l’ex Police si è potuto aggrappare prima di precipitare. Uno di questi si chiama “The Soul Cages” (1991) e corrisponde ad una fase difficile della vita di Sting, densa di eventi luttuosi e traumatici. Si spiega anche così l’insolita spontaneità di questo album, che contrasta con la freddezza del personaggio, ben nota anche ai suoi estimatori. Sting non ha perso il vizio di circondarsi di ottimi musicisti di estrazione jazz: qui troviamo la batteria di Manu Katché, le tastiere di Kenny Kirkland, le chitarre di Dominic Miller e il sax di Branford Marsalis, con l’aggiunta del tocco celtico delle cornamuse del Northumberland, sua regione di origine. Tutto ciò garantisce un disco suonato in maniera ineccepibile. Sting però non ha perso del tutto neanche il vizio di accalappiare pubblico di bocca buona, e a tale scopo è costruita “All This Time”, il classico rock radiofonico, con relativo refrain piuttosto scontato. Ma le vie del Mercato sono infinite, e almeno per quanto riguarda l’Italia, il tormentone che trascinerà le vendite dell’album sarà la gradevole ballata “Mad About You”, con le sue limpide risonanze di chitarre acustiche, e il bello è che di tutto ciò si deve ringraziare una traduzione di Zucchero (“Muoio per te”), così insensata e sgrammaticata che sembra fatta da un bambino che non sa l’inglese. Misteri del Mercato, al quale ci inchiniamo rispettosi. C’è molto di meglio in “The Soul Cages”, a cominciare proprio dall’iniziale “Island Of Souls”, un vero gioiello nascosto in cui il glaciale Sting riesce nell’impresa di commuovere. La storia di Billy, figlio di un operaio dei cantieri navali di Newcastle (città natale di Sting), che sogna di navigare verso un’isola di anime insieme al padre, da poco morto in “quello che chiamano un incidente industriale”, è di quelle che non ti aspetti da un cinico elegantone come l’ex Police. L’immagine del lavoro nei cantieri, con gli uomini “appesi come mosche alle impalcature” è notevole, e ancora più ispirata è la musica, dall’introduzione di cornamusa alle ipnotiche cadenze jazzeggianti di basso che sostengono tutto il brano, con il finale che sfuma di nuovo nel sinistro gemito dello strumento del Northumberland, penetrante come la sirena di una nave. Altra gemma rimasta pressoché inosservata è la suggestiva, impressionistica “The Wild Wild Sea”, un vero e proprio moto ondoso di sensazioni legate al difficile rapporto con il mare, con un crescendo drammatico, vorticoso come un’onda anomala, che anche in questo caso finisce per fondersi con l’allarmante sirena finale della cornamusa. Notevole anche “Jeremiah Blues (Part 1)”, che attende da 19 anni di essere completato da un’eventuale “Part 2”. Si chiama blues ma è sciolto e ballabile come un soul, e dà il meglio di sé nella parte finale, con l’assolo di chitarra elettrica di Dominic Miller che si staglia nitido sul battito caparbio del basso di Sting. Sembra più tipicamente blues l’ostinata “The Soul Cages”, che ha il solo difetto di trascinarsi un po’ troppo per le lunghe, anche se va detto che a metà brano incorpora una ripresa della struggente melodia di “Island Of Souls”. “Saint Agnes And The Burning Train” è un piacevole intermezzo strumentale posto proprio a metà disco, una sorta di seguito ideale di “Fragile”, ma privo di testo. A parlare è la chitarra acustica di Dominic Miller, impegnata in pregevoli evoluzioni alla maniera (solo alla maniera) di Paco De Lucia. Completano il quadro “Why Should I Cry For You” e “When The Angels Fall”, due maestose e un po’ ambiziose ballate melodiche, a dire il vero non troppo ispirate, specie la seconda, con il suo finale dilatato a dismisura, forse proprio per chiudere il disco solennemente. Nonostante i loro evidenti limiti, l’interpretazione di Sting, e soprattutto quella dei jazzisti che lo accompagnano, riesce a renderle non sgradevoli, il che vale a maggior ragione per la già citata “All This Time”, l’altra macchia (la più evidente) di un disco in ogni caso ottimo e da rivalutare, insieme al povero (si fa per dire) Sting, massacrato dalla critica ben oltre i suoi demeriti. (Luca "Grasshopper" Lapini)