CLAUDIO MELCHIOR  "Ho molti follower"
   (2019 )

Autodefinitosi speaker “spara-sciocchezze” alla radio di fine anni ’80, attivo nel teatro e nella pubblicità, il professore universitario di comunicazione Claudio Melchior giunge ora al suo disco d’esordio, carico di sarcasmo beffardo in un sound volutamente vintage, così smaccatamente anni Ottanta da risultare un’operazione non nostalgica, bensì post- qualcosa… diciamo post - synthwave. Il primo pezzo dà il titolo all’album, “Ho molti follower”, e già qui si può capire l’approccio spigoloso del cantautore. Sopra arpeggi à la Camerini, canta con una voce dal registro basso, con un tono simile a quello dei Bloodhound Gang. Il pezzo “Al mare” invece è serio, e contrappone una vita stressante alla pausa rinfrancante del giro al mare. Come dichiarato dall’autore (al BalconyTV di Schio), questa è dedicata a suo figlio, ed è l’unica canzone veramente d’amore, “senza metterci dentro altre cose”. I sintetizzatori proseguono la loro corsa in “Andiamo di qua”, che sembra proporre un testo senza senso e quasi tutto fatto di frasi di movimento: “Andiamo di qua, andiamo di là, e poi torniamo di qua e poi saltiamo di là”. Però in mezzo a questi saltelli, ci caccia una frase come: “Un bambino che ride cavalca la realtà”. Tra il serio e il faceto si prosegue con “Essere felici almeno un’ora”, una corsa synth su un rapporto difficoltoso: “Il tuo volere si scontra con la mia felicità, quello che desideri tu lo sai solo tu nella tua opacità, semplicità”. La follia incontra la rabbia in “Giocare a dadi con Dio”, dove Claudio sembra inveire contro l’ascoltatore: “Hai mai pensato che il tempo non fa eroi, hai mai pensato, cretino, che chi fa il tempo siamo noi? Giocare a dadi con Dio. Hai mai pensato, deficiente, che ciò che conta non conta niente? (…) Non ce l’ho con te, ce l’ho con Dio, che ci ha fatto annaspanti…”. Si torna a temi più leggeri con “Fake Simon Le Bon”, dove il nostro si sente realizzato assomigliando al suo mito: “Metto i tacchi, alzo il ciuffo, spingo il petto in avanti come fossi uno struzzo, e poi vado, mi muovo e canto, essere uguale al modello il mio unico vanto (…) Non ridete, copiamo tutti, copiamo i modelli specie quando sono brutti”. Settimo e ultimo brano, “Sì in fondo” chiude il breve disco con un ritornello dall’arrangiamento chiaro e luminoso, che accompagna riflessioni di vita: “Sì in fondo, senza rendermene conto, ho molto camminato, (…) sebbene a stento ancora mi tengo assieme (…) in egual misura ho respirato e sbagliato, non c'è altro senso che andare”. Un esordio semiserio, per un autore che vuole presentarsi tale, giocando coi sintetizzatori e con il suono degli anni reaganiani, per definire una precisa personalità. (Gilberto Ongaro)