CINQUE UOMINI SULLA CASSA DEL MORTO  "Kairòs"
   (2019 )

Seconda prova discografica per i Cinque Uomini Sulla Cassa Del Morto, “Kairòs” è un album dove il folk della band accompagna testi introspettivi e personali. Nonostante il nome ironico e piratesco, l’intenzione della proposta è parecchio profonda. Chitarra acustica spesso in primo piano, alternata a ukulele, tra batteria e percussioni, tastiere che spesso virano su pianoforte e glockenspiel, incisi di violino, la musica ci porta verso terre serene e boscose. Tutti e cinque i membri cantano, e spesso i ritornelli sono in coro. Inoltre, le canzoni contengono numerosi cambi di tempo, volti non tanto a fare i virtuosi, ma a coinvolgere emotivamente (come esempio famoso, viene in mente “Iris” dei Goo Goo Dolls). Ma spicca tra questi giochi, il cambio da una specie di bossa nova a un 6/8 di “Come fossi il tuo futuro”. In diversi testi ci si rivolge in maniera poco velata alla coscienza, come nel caso degli spettri di “Buio”: “Attento alle foto che scatti, ci sono i mostri, li hai seppelliti così a fondo che non ricordi nemmeno di averli nascosti, ma io li vedo, e al tuo sorriso dipinto non ci credo (…) guarda la tua faccia sporca, e non dire non importa”. “Fino a essere nulla”, per dirla alla Freud, sembra essere scritta con il Super Io: “Quando l'ultima luce si sarà spenta, quando l'ultima porta si sarà chiusa (…) abbiamo ancora paura degli scantinati (…) per fortuna ci fa ancora male vedere un bambino che piange (…) non ci facciamo toccare da ciò che non è finzione”. Stessa cosa per “I giorni del sole”, quando siamo ammoniti perché non piangiamo i morti degli altri. “Dal deserto al mare” mette in contrasto una realtà fatta di carovane nel deserto, e di un mondo di specchi che “mentono quando riflettono”. Qui però emerge il concetto del titolo dell’album, il “kairòs”, cioè il tempo riferito a un evento speciale, il “momento supremo”, in contrapposizione al tempo ordinario e sequenziale (“chronos”). Dunque non si tratta solo di una serie di filippiche, c’è spazio anche per la filosofia e una visione poetica molto terrena, fatta di cemento. Come in “Tadan”, brano immerso nei ricordi d’infanzia, tra “ginocchia sbucciate” e “le giornate sotto al sole giocando a biglie in riva al mare”, o come tra le figure mitologiche di “Dragoni”, dragoni e streghe che “ti fanno ridere nel modo più sincero”. C’è anche vicinanza verso l’immanenza della precarietà, e la malinconia dei sentimenti, affrontata con forza positiva, come ne “Il profumo di casa” o “Vieni a svegliarmi”: “È il tuo compleanno, sogna forte questa notte per sognare tutto l'anno (…) vieni a svegliarmi domani, e i miei occhi saranno vispi”. Suoni atmosferici di sintetizzatore chiudono “Non dirlo a me”, dove l’incertezza del futuro si mescola ad immagini al rallentatore: “Nella pioggia che sporca l'asfalto, i vestiti puliti e l'affetto di un altro”. “La nostra intersezione” mostra la difficoltà di condividere visioni personali in un rapporto: “Vorrei fossi come me, anzi è meglio se sei diversa da me, vorrei provassi quel che provo io, anzi è meglio che sia solo mio”. “I miei occhi” vira nel surreale, offrendo i propri occhi: “Guardali nel ghiaccio, si fossilizzano”, ed ecco anche qui rispuntare una frase che sa di monito: “Siamo soltanto persone cieche. Ora non più”. “Torino” chiude in maniera delicata situazioni intime: “Ma se ti scosto i capelli dagli occhi, mi accorgo è lo stesso il maglione che indossi”. I Cinque Uomini Sulla Cassa Del Morto raccontano d’essere stati criticati per i testi del primo disco “Blu”, forse troppo ingenui, ma mettono le mani avanti, perché potrebbe essere anche solo la loro percezione. In effetti, tra le parole di pezzi come “Bon” e “Il sole da solo”, c’è un’evoluzione di stile, senza voli pindarici ma senza neppure ricadere in una pacca sulla spalla non richiesta, a un uomo triste da consolare. La volontà di rasserenare c’è, così come dei messaggi di umanità qua e là. Sarò di parte, ma è giusto che si continuino ad esprimere questi messaggi. Non bisogna lasciarsi prendere dalla paura che “la ggente non vuole sentir prediche”, perché il pubblico, se abbracciato nel modo giusto, è disposto ad ascoltare. Con questo disco gli angoli sono stati smussati, sembra di cantare attorno ad un falò e ci si sente tutti più vicini, con gli occhi che brillano. (Gilberto Ongaro)