SOFT GRID "Agency"
(2019 )
Quando penso ad una canzone, metto in fila: introduzione, strofa, ritornello, bridge, di nuovo ritornello. O comunque immagino un tema portante, un canovaccio, qualcosa che si ripeta varie volte nell’arco del brano. Più o meno.
I Soft Grid, trio berlinese formato dalla vocalist Jana Sotzko, dalla polistrumentista Theresa Stroetges e dal batterista Christian Hohenbild – di recente subentrato al membro storico Sam Slater - rappresentano l’esatta antitesi di tutto ciò.
Degno compimento del discorso iniziato nel 2014 con “Stingrays” e sublimato due anni più tardi nelle contorsioni di “Corolla”, “Agency” (appena uscito per la tedesca Antime Records) segna il ritorno tra echi di Tortoise, Notwist e To Rococo Rot: inscena una musica krauta dal cuore affatto gelido, uno straniante pastiche che mescola la robotica teutonica ed il languore vagamente lascivo delle Warpaint (una magistrale “Airplane”), con esiti nuovamente spiazzanti.
Architrave del progetto e crisma che ne definisce la caratura è un compiaciuto snobismo declinato in forme consone ad un suono multiforme e variegato. Un ibrido di evidenti ascendenze fuse mirabilmente in questa cellula di intellighenzia, tanto stimolante quanto difficilmente ascrivibile ad un filone preciso.
La malìa infida dei tre prende le mosse dai nove minuti dell’opener “PPPY CNNN”, che inizia come un qualsiasi brano indie di venticinque anni fa, salvo impazzire un paio di minuti più tardi, infilandosi in un cunicolo di synth, basso, batteria, urla improvvise ed un tema ripetuto in loop manco fosse “Oxygene” del maestro Jarre.
Analogamente, gli undici minuti di “A century behind” disegnano un crescendo incalzante, ma in modo non lineare, come se lievitassero emotivamente, ma non musicalmente. Lo fanno con un’aria svagata e monocorde sorretta dal synth e sfigurata da un incedere prepotente del basso: il canto è un flautato lallare spettrale su un passo sghembo e sbilenco da Modest Mouse, schizoide e disallineato.
La title-track in coda è cinque minuti e mezzo di staffilate della batteria sottolineate da una vocalità impersonale e metronomica, inquietudine che si scioglie in un tema atonale dilatato, quasi jazz alla maniera sincretica dei These New Puritans o dei Koop del secondo album. Senza approdare a nulla, senza seguire una linea che non sia l’assenza stessa di una linea.
Si tratti o meno di sottile sperimentazione, il gorgo trascina verso un altrove indefinibile. Avanguardia berlinese parto di tre artisti – Slater ha scritto e registrato le parti prima di lasciare la band per dedicarsi alla carriera solista - che non sono soltanto musicisti: la loro è intenzione visuale, musica per installazioni, connubio che sposta il baricentro oltre quello di una semplice canzone.
Psichedelia 2.0 e nevrosi psicotica: forse arte-per-l’arte, ma con qualcosa in più. (Manuel Maverna)