VON STROHEIM  "Love? Who gets love?"
   (2019 )

Dischi come questo sono lì a ricordarti che devi morire.

E che devi pure morire male, come direbbe il mio amico Paki.

Primo: perché ti portano indietro. Certo, dipende da quanto indietro, e stavolta “indietro” è – uh, santo cielo – mezza vita fa. Appartengono all’età dell’oro di quando non facevi molto caso ai numeri sulla torta di compleanno o ai progetti futuri, e quel crogiolarsi malinconico in canzoni catacombali e struggenti era un passatempo da romantici crepuscolari, nulla più.

Secondo: perché raccolgono litanie sepolcrali che – nostalgici o meno, depressi o meno – non possono non scavare un solco profondo nell’animo già predisposto alla mestizia di soggetti particolarmente sensibili al fascino delle tenebre. A prescindere da tutto il resto.

Ciò detto: gran disco questo “Love? Who gets love?” dei Von Stroheim, trio belga formatosi nel 2015 con la suonatrice di theremin Dominique Van Cappellen-Waldock alla voce, Raphaël Rastelli alla chitarra e synth, e Christophe Van Cappellen alla batteria (John Thys nel biennio successivo e Yannick Daïf fino ad oggi), nero come una veglia funebre.

Brani a tema - racconti di amori letali - come cortometraggi noir, costellati da inserti di voci campionate ed inzuppati in un mood affranto; una palude stigia, immensa pozza oscura: più o meno come se Siouxsie cantasse brani scritti dai Neurosis ed eseguiti dai Loop. Un crocevia pericolosissimo tra doom, kraut-rock e heavy-psichedelia nel quale la musa diafana assume sembianze cangianti ma sempre minacciose e ben poco rassicuranti.

Talora ha inflessioni che richiamano Jarboe, della quale perverte la paradossale morbidezza virando verso un espressionismo deviato, altrove si avvicina a Chelsea Wolfe, nel martellamento ossessivo di “For a beautiful girl” si infila persino in un gorgo che la risucchia – vagamente lasciva e perduta - verso le profondità di Nico.

Cambia, recita, interpreta, sempre posseduta da una intensità quasi tangibile: lo spoken word allucinato dell’opener “Moth” si fa strada fra sinistri rimbombi, “Wire” ciondola su un rallentamente stralunato, “Spit” dispensa frammentata nevrosi in schegge di elettricità disturbata. “Pulp”, con recitato maschile di Pete Simonelli (Enablers) su una cadenza ossessiva, è interrotta da un gorgheggiare lirico mutato in vocalizzi estatici; “Red raw”, percorsa da una ritmica più sostenuta ed unico brano suonato non su chitarra baritona, giunge quasi innaturale e stranamente accessibile benché immerso nell’abituale tetraggine, mentre “Cigarette smoke” tocca vertici di lirismo sorretti dal violino dolente e straziato di Franz Krostopovic (Pale in Grey), quasi un Matt Howden in acido.

Ma è nei sette minuti della conclusiva “Blood institute” che tutto si placa, inaspettatamente: su un ritmo basilare, quasi uno shuffle pigro, la chitarra tesse indolente la sua ragnatela di accordi inanellati come cerchi di fumo fino alla catatonica ripetizione finale, suggello a quarantadue minuti di pura asfissia senza un dannato istante di lievità o un minimo rilascio di tensione.

Unico neo: dopo un album così bisogna per forza ascoltare qualcosa del Duo Bucolico o del buon Elio. Giusto per scordarti che devi morire. (Manuel Maverna)