JENA LU  "Le dita nelle costole"
   (2019 )

Mirko Lucidoni è leader della band alt rock laBase dove, su un sound affine a quello degli Afterhours, canta con un approccio al vetriolo: astioso e corrosivo. Ora ha composto delle nuove canzoni, che decide di rendere in acustico. Per far questo, nasce il suo progetto parallelo Jena Lu, e con questo nome esce l’album “Le dita nelle costole”. Così possiamo sentire che, sotto la corazza da duro, si nasconde un cuore… ancora più duro. Benché si affrontino aspetti dell’interiorità, con una certa umana agitazione, lo sguardo resta lucido ed analitico. Forse in acustico (semi acustico, per la precisione) l’esito vocale è più efficace, poiché meno nascosto dalla distorsione accesa in maniera importante. La prima delle nove sberle si chiama “Barad-dur”, come la Torre dell’oscuro Sire Sauron nella terra di Mordor (secondo la Tolkienpedia). Mirko irride (o si auto irride) mentre l’interlocutore contempla le proprie macchie, che anche se cancellate restano nella coscienza. Macchie, come “sublimazioni su stagni d’argento”, che per orgoglio vengono anche difese, fino ad isolarsi nella propria convinzione: “E compiutamente difenderai le posizioni conquistate, ti sosterrai, ti consumerai chiuso nella tua personale torre di Barad-dur, osservando tutto quello che forse sarai”. Si affronta ancora l’oscurità in “Ieri e oggi”: “Come ieri, oggi il male ho, come oggi spesso il male sono”. Si può avvertire sullo sfondo un riferimento all’attuale incapacità di dialogo, tra persone chiuse in manichee convinzioni, pure su temi delicati: “Comandi, conclusioni, forzature, e la slealtà diffusa a cui appartieni; il pozzo che ho scavato non disseta, me l'hanno avvelenato proprio ieri”. Da questo buio mentale vien voglia di scappare, e questo si racconta con “L’esodo”, dove il senso dello spazio è dilatato: “Roma è così vicina, uno sguardo al Gran Sasso e alla neve (…) L'Australia sarà lontana, per me un po' troppo vicina, ma su Marte da solo forse mi annoierò (…) non so se vorrei mai tornare da te, da te terra mia, terra purtroppo senza più poesia”. Questo brano, per quanto amaro, si affranca un po’ dalla rabbia generale, e la chitarra elettrica qui compare in maniera non pungente, ma più avvolgente ed ipnotica. Ancora un suono lisergico per “La bamba”, dove la voce diventa beffarda e nasale, quasi rievocando l’indimenticato spirito di Jannacci: “Tutti gli amici fanno segni strani, come quel codice con l'indice, che sembra grattare sul tavolino ed il sorriso sul volto si stampa (…) bamba tu bamba tu bamba, tu trita la bamba”. La chitarra psichedelica viene raggiunta da un saxofono, in un clima divertito. Con “La sera” si torna seri. Si osserva il cielo, guardando oltre ciò che si vede, e questo aiuta ad evitare di fare la grande cazzata: “Io cammino e osservo la sera, ponendo lo sguardo tra stelle fisse ed astri orbitanti (…) il tempo, curvandosi attorno a noi su nuovi bellissimi mondi, ci trascinerà. E pensare che ieri volevo farla finita”. Pur salvi dal suicidio, ad occhi aperti il senso d’oppressione resta: “Una distesa senza un orizzonte, un fronte stretto dove nulla passa”. Così recita “Chiudendo gli occhi”, dove la difesa dall’angoscia è alcolica: “Calma apparente, con un cuscino che ti sta vicino, un'altra gioia da soffocare senza ripensamenti, un altro po' di vodka, e la notte passerà”. Accordi dolci introducono “Spaziale”, dove Mirko affronta la noia di una relazione consolidata, dove sembrano esauriti gli argomenti. Interessanti, sotto al lamento cantato, le progressioni armoniche. E ancora una volta, la dimensione onirica rende migliore il grigiore della realtà: “Quando mi addormento divento spaziale, vado a stabilire un rapporto un po' celestiale, astronave pronta a partire”. Ma con “E’ tutto bello” si raggiunge l’apice dell’acidità e del nervosismo di Lucidoni, che sembra voglia essere fastidioso a tutti i costi, aumentando l’aggressività a mano a mano che il pezzo prosegue, fino alla bestemmia esplicita, ed alla presa in giro verso l’influencer più nota d’Italia: “Chiara Ferragni non allatta ma mi allatta, mentre la penso mi disturbo con fatica”. Tutta questa deformazione vocale è spiegata nella frase ritornello: “La verità è che tu non sei mai completamente convinto nel dissentire”. Con l’ultimo pezzo, “La stanza” (che non è quella dei Negramaro), improvvisamente la voce si pulisce, e canta il desiderio di luce, dopo tutte queste parole nere, anche se il sarcasmo non si smorza fino alla fine. Si esprime quindi la volontà, in Jena Lu, di sentirsi voci fuori dal coro, dissenzienti e radicali, fino a far male, esattamente come le dita nelle costole. (Gilberto Ongaro)