JOHNNY DALBASSO  "Cannonball"
   (2019 )

E’ sabato pomeriggio, vado a prendere mia figlia alle prove del coro. Sono in anticipo di un quarto d’ora, me ne sto lì appoggiato ad un cancello chiuso e ne approfitto per riascoltare meglio Johnny DalBasso. Il suo nuovo lavoro – il terzo dal 2014 – si intitola “Cannonball” ed esce per Goodfellas, bel marchio di fabbrica. Dura venticinque minuti, se mia figlia tarda un po’ – tipico – ci sto dentro.

Dopo cinque minuti inciampo in “San Francesca”, centoventitre secondi di canzone che mando in repeat per dieci volte. Ringrazio mia figlia che esce puntualmente in ritardo. La accompagno dal parrucchiere e la parcheggio lì, dove c’è già mia moglie sotto il casco. Salgo a casa e regalo finalmente a Johnny l’attenzione ed il volume che merita: un volume francamente osceno per essere da poco passate le tre e mezza del pomeriggio, ché a quest’ora il regolamento condominiale dice che dovresti osservare un rispettoso silenzio.

Decido di violare il buon senso ed infischiarmene di anziani e bambini limitrofi: it’s only rock’n’roll and I like it, non lesiniamo sulle basi della vita. E non si risparmia neppure Johnny in queste undici tracce sparate a mo’ di schegge, registrate in presa diretta in due giorni, con Gianluca “Tilly” Terrinoni alla batteria come unica deroga alla tradizionale solitudine da one-man-band.

La sua è una musica ispida, incisiva e fragorosa, condensata in pezzi brevi, rasoiate elettriche da due minuti ciascuna, poco più o poco meno. Testi sputati in faccia che non indugiano su grandi concetti filosofici o giri di parole: è rock’n’roll e così sia. Ci infila pure la cover di “Furore” - repertorio minore dell’Adriano nazionale - e sembra perfetta, quasi gli appartenesse, anche se l’originale era uno swing e questa è una sassata sgolata e nervosa.

“Cannonball” scivola via in un amen tra qualche accenno di ballata e frenetiche impennate grevemente stradaiole, declamate in un crooning a tratti stentoreo che pare retaggio d’un cantare che fu; qua e là assume accenti da Brian Setzer (“Lascia a casa tuo marito”) come pure un baritono languido, ma anche un tono beffardo, strafottente e sbavato à la Gian Maria Accusani (“Niente di male”), specie quando insiste su un garage-rock cattivello e dispettoso inzuppato di Iggy e Jon Spencer (“Sufrimiento”), sontuosa rilettura dell’abc del mestiere.

Pare talora indulgere ad un sarcasmo pungente (“Micidiale”, già pubblicata come singolo nel 2016), ma in fondo è il suo è un serissimo excursus su amori da poco declinato in canzoni amare, tra foga sguaiata e ballabili d’antan (“Storia d’amore (part II)”), piccole storie comuni buttate lì, un po’ Tommi Marson un po’ Tex Murky, cose semplici che funzionano proprio perché non stanno a gingillarsi con tanti arzigogoli. La bordata della title-track, lanciata a mille all’ora su un riff assassino, è una tirata spaccaossa sporca e suggestiva, due minuti che raccolgono in sé un calore da bassifondi, ma tutto l’album – qui sta il bello - è un variegato, brillante compendio di furia arrembante e piratesca dolcezza.

Chiude in punta di chitarra con una “Adesso e qui” che sembra repertorio di Federico Fiumani: perduta, desolata, vissuta. Giusto il tempo per “Al bar”, ghost track che manda i titoli di coda di questo cortometraggio fuori dal tempo: musica per organi caldi, in un bianco e nero virato seppia che non è mai stato così entusiasmante. (Manuel Maverna)