NEVICA  "Tengo"
   (2019 )

La sottile gradualità con cui lievita in un paradossale intrico di spontaneità e rigore formale fa di “Tengo”, nuova evoluzione (su Area51 Records) di Gianluca Lo Presti - musicista, autore, produttore, sound engineer e molto altro -, un lavoro dalle mille sfaccettature e dalle infinite chiavi di lettura.

Distante dalle precedenti incarnazioni, abbandona la scrittura pop di Nevica Su Quattropuntozero così come l’eleganza vagamente elitaria che rivestiva il progetto Nevica Noise non più tardi di un paio d’anni orsono: rimasto semplicemente Nevica, prende spunto dal pensiero dello psicologo e musicoterapeuta Mauro Scardovelli e da “1Q84”, neo-classico di Haruki Murakami, per una lunga digressione – in realtà una personale riflessione a tutto tondo – che coinvolge sia i personaggi protagonisti del romanzo, sia – per traslato – il genere umano.

Album composito ed ambizioso, “Tengo” procede edificando su strati di idee: prima plot e caratteri, poi uno storytelling immaginifico ed ermetico, indi una musicalità elaborata e complessa. A rivestirne l’ossatura – come ovvio – suoni cesellati in una ramificazione maniacale, un’arte nell’arte che asseconda liriche mai ridondanti o giustapposte.

L’opener “Il nostro suono” esordisce ingannevole tra apparenti retaggi dark-wave d’antan, ma si infila subito in un dedalo di cunicoli a delineare un percorso tortuoso ed accidentato. E’ un viaggio tra narrativa, sogno e triste realtà quello narrato nei sei minuti di “Tina e Swaraj” - introdotti da una voce robotica ed accomodati su una cadenza ipnotica - o nei quasi sette di “Outing parte II”, elettronica infida cupa e rimbombante, un loop percussivo trafitto da un delicato contrappunto risolto soltanto nel largo synth à la Battiato del finale, culla alla mantrica ripetizione del leitmotiv “l’indifferenza è una forma di violenza in sé”.

Lavoro opulento, di una densità impegnativa da affrontarsi, mi ricorda nelle intenzioni la ricerca e la ricercatezza dei Piccoli Animali Senza Espressione, ricco com’è di una autorialità che ne innerva trame elaborate, sospese, trasognate (la conclusiva, toccante “Ghiliachi” ne è forse l’apice). Il canto diviene inessenziale nella forma, determinante nella sostanza: modulato con algida grazia, veicola messaggi che originano dall’ambito testuale per deviare di continuo in direzione di un esistenzialismo imperniato sull’agonizzare dei modelli sociali e sul depauperamento etico dell’umanità tutta.

“Due lucertole” dipana così il suo straziato racconto di ferite e sconfitta su un’aria che richiama il Max Gazzè autentico (non quello radiofonico, pur sontuoso); l’ondeggiante “Aomame nascosta nell’appartamento” inizia eterea su un’aria à la David Sylvian salvo infilarsi in una serie di rumorose figure ossessive dalla metà in poi, preludio ad una nuova variazione che contiene un tema ancora diverso, simile ad un ritornello, ma ben lungi dall’esserlo. E non bastano la linea di basso di “Tengo (ghost writer)” o l’intimismo sofferto di “Animadre” a mutare la natura incompromissoria di un’opera tanto intensa quanto lontana dal deflettere dal proprio proposito.

Antitesi della music for the masses, cerebrale ma non cervellotico, “Tengo” è album difficile che manca volutamente di immediatezza: rinuncia sì ad una accomodante accessibilità, ma coinvolge grazie alla solida e trasparente qualità del processo creativo che lo muove.

Richiede devozione, attenzione, ragionamento, pensiero attivo. (Manuel Maverna)