LAURIE SPIEGEL  "The expanding universe + Unseen worlds"
   (2019 )

“Music Mouse: An Intelligent Instrument”. Questo è il nome del programma per computer inventato da Laurie Spiegel, a tutti gli effetti pioniera della musica elettronica. Il suo lavoro di debutto “The Expanding Universe”, del 1980, fu realizzato con il GROOVE System, uno strumento che successivamente Laurie non ebbe più a disposizione. Il software nominato poco sopra invece, creato per poter avere a disposizione uno strumento personale e con meno rischio di perdita di dati, contribuì alla creazione dell’album “Unseen Worlds”, nel 1991. Purtroppo, l’etichetta con la quale uscì quest’ultimo, svanì nel nulla e quindi, letteralmente, i mondi di quel disco andarono perduti, non visti. Ora è uscita, per l'inglese Cargo Records, una ristampa in triplo cd (o 5 vinili) di entrambi i lavori, in versione estesa. E possiamo ascoltare i frutti della ricerca di Spiegel in tutta la loro interezza, con molte tracce lunghe oltre i dieci minuti, in cui snocciolare tutte le possibilità di sviluppo dei suoni prodotti. “The Expanding Universe” contiene pattern di suoni elettronici primordiali, a partire da “Patchwork”, il cui tessuto polifonico si infittisce sempre più nel tempo. I suoni sono stellari, come in “A folk story”, ma capitano anche elementi percussivi incisivi nell’economia delle composizioni, come in “Pentachrome”, “Drums” e “Music for Dance I”. O in “Clockworks”, dove gli armonici dei ticchettii formano un ritmo africano digitale, che invita al movimento. Oltre le polifonie, emergono soprattutto momenti alienanti (o alieni) di sequenze di due sole note, o una sola, tiratissima, anticipando la drone music. Come nella titletrack, dove il suono è corroborato da un lento effetto flanger, o nella tensione creata dalla staticità di “The Orient Express” o dei gravi suoni scivolosi di “Wandering in our times”, ma soprattutto negli acuti glissati allarmati di “Kepler’s harmony of the worlds”. Altri elementi ricorrenti sono l’utilizzo di leggere dissonanze, o comunque di gradi armonici vicini come il secondo, in “Music for Dance II”, e la funzione di arpeggiatore, che crea cascate di biscrome liquide, come in “East river dawn”, dove davvero il continuo scorrere delle goccioline di suono, è come il fluire di un fiume. Questo aspetto degli arpeggi emerge nel trittico “Appalachian Groove”, dove nei tre pezzi sono dapprima vivaci e staccati, poi smorzati e legati, ed infine si aumenta gradualmente il release: ciò significa che ogni nota allunga la propria “coda”, fino a sovrapporsi alle altre. Ma ora entriamo nei suoni creati dal programma originale di Laurie Spiegel, facendo un balzo di 11 anni nel suo “Unseen Worlds”. Già dai primi “Three sonic spaces”, I II e III, si sente l’evoluzione in fatto di tridimensionalità dei suoni. Per capirci a livello visivo - grafico, che è più intuibile, siamo passati dal primo “Tron” a “Toy Story”. Nel secondo di questi “spazi sonici”, l’armonia riverberata ricorda un liuto strofinato con veemenza. Se prima, nonostante la cura dei suoni levigati, si percepiva ancora distintamente la provenienza dal computer, ora ci si può distrarre e percepire suoni dalla parvenza più naturale. “The hollows” è un’affascinante ed avvincente ambientazione scurissima, attraversata da suoni luminosi e cristallini. Luci nel buio. Pura emozione nei venti sonori di “Two Archetipes: Hall of mirrors – I” e negli esiti drammatici e corali di “Two Archetipes: Hurricane’s Eye”, degni di un’ambientazione cyberpunk. La trama di microsuoni agghiaccianti diventa una vera e propria texture di vetro in “Sound zones”: sembra d’attraversare rapidi detriti di meteoriti taglienti, senza tuta spaziale. Gradualmente, le schegge si trasformano in note intellegibili, intonate in una precisa tonalità. Ma l’armonia presto dovrà fare i conti con una tempesta, in “Riding the storm”, tra gocce digitali d’acqua e un suono che simula una stridente chitarra flamenca. Pace nella “Strand of life (“Viroid”)”, con una sequenza monofonica melodica di una pseudo arpa, e nella tenera “From a harmonic algorithm”, con progressioni che rimandano direttamente a Bach. Ed infine “Passage” ci coinvolge in una lunga serie di suggestioni, che inizia come i proto-drones del “The Expanding Universe”, ma poi veniamo circondati da orologi isterici, da esplosioni, lugubri campane e cori. Tutto ciò che accade sembrano come eventi osservati vagando in un cunicolo spazio-temporale. Ora possiamo riascoltare tutto questo, e diffondere in maniera più capillare questa artista così influente. (Gilberto Ongaro)