MAX DEDO  "Un posto vero"
   (2019 )

Non è stato facile recensire “Un posto vero”, il nuovo disco di Max Dedo, perché quando ti innamori di un progetto musicale, delle suo linee melodiche e stilistiche, delle sue parole e senti che in quel progetto c’è un immensa sensibilità umana, hai sempre paura di scadere nella faziosità e nel melenso, che potrebbero non dare il giusto merito all’artista e al suo lavoro.

Avrei potuto recensirlo in maniera tecnica e distaccata, scopiazzando il comunicato stampa, dicendo che è il terzo album da solista per l’eclettico cantautore e polistrumentista siciliano; mi sarei potuto limitare a citare la sua lunga e prestigiosa carriera con artisti italiani e stranieri, poi aggiungere due frasi di rito, dare un voto e avrei messo a tacere la mia coscienza.

Ma chi mi conosce sa che quando scrivo di musica, lo faccio con sentimento, ascolto e riascolto mille volte un brano, un riff, un incipit, cerco di capire con attenzione cosa vuol trasmettere l’artista, poiché penso che sia la massima forma di rispetto verso un qualsiasi progetto artistico, e così la scorsa notte, mentre vagavo in macchina per la città, durante l’ascolto di “Agli Occhi delle Gente” mi si è accesa la lampadina e ho capito che “Un Posto Vero” è un disco “rivoluzionario”: sia perchè rivoluzionari sono gli artisti con cui collabora Max Dedo, da Carmen Consoli ad Erriquez, da Max Gazzè all’artista cubano Ramon Caraballo, e sia perché con sarcasmo, ironia, cinismo e soprattutto tanta passione, Dedo riesce a far riflettere l’ascoltatore su temi importanti, come i migranti, le persone diseredate, la natura, la terra, l’uomo e le sue mille contraddizioni.

Ma la vera rivoluzione sta nel fatto che “Un Posto Vero” è un disco che parla di sogni e di utopie (“non credevo che si potesse vivere di nuvole”) e, nello stesso tempo, del raggiungimento di un “luogo reale”, che spesso consideriamo astratto, infinito, irraggiungibile, e invece Max ci insegna, con le sue parole e la sua sensibilità, a considerarlo un posto reale, fatto di esperienze, di persone incontrate nel nostro cammino di vita, di luoghi vissuti nel passato e dalla realtà, a volte scomoda, della vita di ogni giorno.

“Un Posto Vero”, a detta dello stesso autore, “è una storia suddivisa in undici tracce, undici storie vissute” che si trasformano in un ipotetico viaggio, e sono proprio le emozioni che generalmente lo accompagnano, a permeare musicalmente il disco, a tal punto che, in maniera visionaria, mi sono divertito a suddividerlo in quelle fasi che caratterizzano ogni viaggio.

La fase eccitante della preparazione e della partenza: si inizia infatti con “Ipocondria Asintomatica”, un brano brioso, dove con brevi accenni di elettronica e con ironia, l’artista siciliano gioca sullo sconfinato mondo dei farmaci che, nelle malattie, accomuna l’essere umano nonostante le sue diversità.

L’eccitazione di una partenza per un lungo viaggio prosegue con “Un Posto Vero”, e raggiunge il massimo dell’adrenalina in “Non ne posso più”, un brano dove l’elettronica la fa da padrona, con uno strepitoso Max Gazzè, che sembra davvero darci più di un motivo per partire e trovare un luogo reale e lontano dagli stereotipi della vita. Ancora elettronica e nervose chitarre elettriche in “Agli Occhi delle Gente” dove spiccano gli incisi cantati da Ramon Caraballo, musicista cubano la cui voce ispanica si sposa alla perfezione con il “mood” del brano, ed è stata fondamentale nel farmi definire questo disco “rivoluzionario”.

La fase contemplativa: gli accenni di elettronica si placano, le chitarre si ammorbidiscono per cantare l’inno alla bellezza in “I Papaveri di Monet”, dove le decise pennellate di Erriquez della Bandabardò fanno sentire tutto il suo carisma nel refrain del brano, così “chiudo gli occhi e mi allontano dalla realtà” quasi a voler fotografare il ricordo più bello del lungo viaggio musicale di Dedo.

La fase nostalgica: in ogni viaggio che si rispetti, almeno nei miei, arriva il momento in cui si pensa per un attimo alla propria casa, che per noi siciliani è la casa natale, la terra d’origine, e cosi da sonorità vintage anni settanta e da una ritmica serrata, scandita da chitarre acustiche ed elettriche, nasce “Inverno maledetto”, una nostalgica ballata in cui l’amarezza del testo prepara all’ascolto del brano più intenso e drammatico dell’intero album: “U piscaturi”, unico brano scritto e cantato in dialetto siciliano la cui drammaticità del testo è resa ancora più forte grazie all’interpretazione di una straordinaria Carmen Consoli. La canzone è attraversata da ritmi andalusi, e sul finale un accenno di tromba e un assolo di chitarra elettrica si ergono a sottolineare la drammaticità della narrazione e del racconto doloroso del pescatore “nel vedere quella povera gente in mezzo al mare, morire senza poter vedere il sole”.

La fase sentimentale sulla strada di ritorno: è dura riprendersi dalle parole con cui Max narra le vicende dei migranti, ma per fortuna le parole d’amore di “Dear Mama” e la delicatezza di “Ballata 432” ci rasserenano l’animo, le calde note di un piano incorniciano le immagini e i ricordi di questo lungo viaggio, tornano a fare capolino gli ottoni, siamo sulla strada di ritorno.

Il ritono a casa: la stanchezza per un lungo viaggio si fa sentire, ma basta aprire la porta di casa per ritrovare la forza e far esplodere la vera natura di Massimo De Domenico, che prende in mano i suoi ottoni e li fa suonare tutti assieme nell’ultimo brano , una magistrale rielaborazione in chiave zigana di una vecchia canzone degli Yello, “Otto di Catania”.

Non mi sono certo dimenticato di “Terra non temere”, ma l’ho lasciata di proposito per ultima e fuori da ogni schema, perché, nel mio delirio visionario, la voglio considerare la canzone dei buoni propositi e della speranza: perché nonostante la drammaticità dei temi trattati Max non perde mai l’ottimismo e la freschezza della sua musica, e si augura “che la vita torni libera e leggera più che mai...”.

Quello in cui Max ci ha accompagnato è stato un viaggio lungo ed inteso, scandito dall’anarchia stilistica, che è riuscita fondere in maniera equilibrata vari stili, facendo convivere elettronica e chitarre acustiche, ottoni e chitarre elettriche, riuscendo a mescolare profumi, colori e paesaggi.

Il suo è un progetto schietto e carnale, che a tratti evoca linee melodiche del passato, ma che nonostante questo retrogusto vintage riesce a mantenere un assoluto timbro di originalità, sia nello stile, che nei testi, che negli arrangiamenti.

Adesso, dopo essermene innamorato, non mi resta che cercare il concerto più vicino, perché penso che, in una dimensione live, Max sia ancora più emozionante e sincero. Voto: 8 ½ (anzi ottone e mezzo!!). (Peppe Saverino)