ENYA  "Watermark"
   (1988 )

A vederla nelle copertine dei dischi o in altre rare immagini, con la sua pelle di porcellana e i suoi improbabili abiti strascicanti, sembra una donna proveniente da un'epoca lontana, quella dei misteriosi e leggendari Celti. Invece è da una remota contea irlandese che proviene, e qui ha cominciato a farsi le ossa con i Clannad, storico gruppo di musica tradizionale. Troppo talentuosa anche per i validi Clannad, ha trovato il suo filone in un particolarissimo cocktail musicale, che unisce la vitalità della musica etnica, non solo celtica, con le rarefatte atmosfere new age. Un suono pieno di riferimenti colti, in particolare alla musica sacra e ai madrigali del '500 e '600 (Monteverdi), ma abbinato a dolci melodie, in genere abbordabili e quindi popolari. Ciò spiega almeno in parte come questa musicista seria, capace di comporre ispirati motivi di gusto antico e di suonare tutti gli strumenti dei suoi dischi, abbia potuto confrontarsi in termini di vendite con gli urletti di Madonne, Spice Girls e altri fenomeni da classifica. Peccato che non la sentiremo mai dal vivo, dato che ritiene impossibile riprodurre su un palcoscenico l'elaborata fusione di suggestioni dei suoi strumenti antichi e moderni che possiamo apprezzare su disco. "Watermark", il suo capolavoro, è un classico esempio di disco capostipite: Enya tenterà di rifarlo per ben tre volte, e il bello è che al primo tentativo, "Shepherd Moons", il miracolo si ripeterà, evento non raro in campo musicale (mi vengono in mente splendidi esempi di "cloni", come "In The Wake of Poseidon" dei King Crimson). Fin dalla limpidezza dell'iniziale pezzo pianistico "Watermark", degno di certi brevi pezzi classici per pianoforte (sentire il tardo Brahms per credere) si capisce che c'è del buono in arrivo: musica vera, non casino! Intermezzi pianistici simili torneranno in questo e nei seguenti dischi, come piacevoli pause riflessive. Perché esiste anche una Enya più ritmica, come quella di "Storms In Africa", incursione ben riuscita nel territorio di Peter Gabriel, quello della contaminazione di melodie occidentali con percussioni tribali africane. A Enya non manca proprio nulla: oltre alle doti già viste si ritrova anche una gran bella voce di contralto, molto classica, ideale per la sua musica. "On Your Shore" riduce la strumentazione ad un discreto sottofondo proprio per mettere in risalto questa splendida voce, che si esalta in un'ariosa melodia di tipico gusto celtico, come anche in "Exile", dove si alterna ad un flauto da pifferaio magico. In "Evening Falls" Enya è accompagnata da un commovente adagio per organo e archi. Ma l'estasi più assoluta si raggiunge in "The Long Ships": qui l'intreccio tra i divini gorgheggi di Enya, i cori e la base strumentale è praticamente perfetto, e anche la melodia suggerisce viaggi verso l'ignoto: semplicemente un sogno. "Cursum Perficio", testo in latino e implacabile crescendo stile Carmina Burana, ha il potere di evocare il mistero e l'oscurità delle catacombe. Successone del disco fu "Orinoco Flow", un motivo molto semplice, direi una filastrocca, ma con raffinati giochi tra i vocalizzi e le tastiere elettroniche che ne fanno un piccolo capolavoro. "Na Laetha Geal M'Oige", come dice il titolo in gaelico, è un ritorno alla tradizione, in cui le "uillean pipes", specie di cornamuse irlandesi, si alternano a quel vero e proprio strumento che è la voce di Enya. L'armonia è totale, nulla è fuori posto: di un disco del genere si può solo dispiacersi che a un certo punto finisca. Meno male che seguiranno altre puntate. (Luca "Grasshopper" Lapini)