PAOLO CONTE  "Appunti di viaggio"
   (1982 )

Stretto tra due monumenti di perfezione assoluta come “Paris Milonga” e “Paolo Conte 1984”, c’è un ulteriore capolavoro che rischia di passare inosservato, o come minimo di essere un po’ sottovalutato. E’ “Appunti di viaggio”, disco sui generis dell’Avvocato di Asti, imperniato sulla rievocazione di luoghi dai nomi ben precisi, ma dai contorni fantastici e indefiniti. Come da spiragli improvvisi si affacciano immagini di Chinatown, Shangai, Vienna, Timbuctu, Zanzibar, di un’imprecisata Africa buia e misteriosa, profumata di gelsomini, di una campagna piemontese popolata da voci e da “abissi di luce”, di un vago Nord di “montagne languide”. Niente a che vedere con gli appunti presi da un turista giramondo con l’occhio attento: questi luoghi piuttosto sembrano vagheggiati da un pigro sognatore che non si è mai mosso da quell’incredibile locale chiamato Mocambo. E’ là che può accadere di ritrovare l’ormai scomparso tamarindo o l’esotico curaçao, è là che si possono ancora incontrare donne fatali dal fascino magnetico, ed è soprattutto là che la musica (naturalmente suonata dal vivo) è rimasta alle atmosfere affascinanti del jazz anni ’30 e ’40. Ammesso che a suo tempo sia esistito, ora è solo un locale immaginario, che rivive esclusivamente nella mente di Paolo Conte e quindi nella sua grande musica. Più che un locale è uno stato d’animo, quello di un’inguaribile nostalgia, che tuttavia convive con la sana abitudine a non prendersi troppo sul serio, come in “Fuga all’inglese”, dove sotto un testo ironico e beffardo si nascondono pensieri tutt’altro che scanzonati (“E’ tutto un grande addio… un giorno Gondrand passerà, te lo dico io, col camion giallo porterà via tutto quanto e poi più niente resterà del nostro mondo…”). O come nella spassosa “Lo zio”, con il suo testo bilingue, dissacrante e al tempo stesso rievocativo, a cui fanno da degno contraltare il ritmo spedito e i numerosi interventi di quel diabolico strumento-non strumento spernacchiante detto “kazoo”, una vera e propria passione dell’Avvocato, che di regola lo associa ai momenti più umoristici delle sue composizioni. “Dancing” come ambientazione richiama il confronto immediato con “Boogie”, ma qui il protagonista è più a disagio (“l’inquietudine e gli inchini fan di me un orango”) e il ritmo è più serrato (rumba). Il locale fumoso con i musicisti nell’ombra, immortalato in “Boogie” è ben lontano: qui siamo soltanto in un volgare dancing, appunto. “Gioco d’azzardo” è un commovente tango di sapore piazzolliano, che tratta con sincerità quasi cinica di un rapporto amoroso tenuto un po’ troppo nascosto, fin quando ormai è troppo tardi; “La frase” ha un ritmo affine, ma è più sibillina e leggermente meno ispirata. Il vero pezzo pregiato del disco è “Hemingway”, non a caso quasi immancabile nei concerti. Dopo poche strofe-flash, il cui comune denominatore è “oltre…”, Paolo Conte ci abbandona con un “forse un giorno meglio ti spiegherò…” e lascia alla musica il compito di rappresentare l’immensa nostalgia per il mondo e il tempo di Hemingway. E la musica lo fa meravigliosamente, con un finale melodico e arioso, futuro modello per altri bellissimi finali in crescendo dopo poche strofe pacate (pensiamo alla splendida “Max”, da “Aguaplano”). Altro momento d’oro è “Diavolo rosso”, che ci porta nel mondo di Pavese, in quella campagna piemontese sognata attraverso “La luna e i falò”, qui invece evocata tramite bellissime immagini staccate, tra cui una a me particolarmente cara: “questo buio sa di fieno e di lontano”, ovvero come concentrare in un verso un insieme di sensazioni. “Nord” scorre per gran parte abbastanza anonima, ma le fisarmoniche nel finale la risollevano assai. A volere proprio trovare un difetto, si può dire che con i suoi otto brani è il disco più sparagnino dell’Avvocato, ma la qualità è sempre quella che conosciamo, quella che fa di ogni suo disco un’opera curata come un prezioso lavoro artigianale. (Luca "Grasshopper" Lapini)