BLANK NURSE/NO LIGHT   "Hiv 1994"
   (2018 )

E’ un incubo frastornante quello veicolato dal brutale approccio di “HIV 1994” (Forking Paths Records), secondo album firmato sotto il moniker di Blank Nurse/No Light dall’artista canadese Evan Davies, sperimentatore elettronico già in vista in svariati progetti, tra i quali meritano menzione almeno i Several Futures, trio di impostazione post-rock autore nel 2016 di un ottimo “Before You Forget”.
Ma Blank Nurse/No Light è tutt’altra cosa, più un’oasi dove sfogarsi e curare ferite, una valvola di sfogo intima e riservata, figlia di una condizione segnata dalla depressione e da un ricorrente disturbo ossessivo-compulsivo: quella declinata nelle sette tracce sconvolte di “HIV 1994” è una trance allucinatoria di matrice electro, sebbene sempre screziata da un’elettricità disturbata e perfino da digressioni che sconfinano nel black metal, in rigurgiti prossimi alla techno, in gorghi di pura tensione emozionale ad un passo dal noise estremo di Merzbow.
Sono trentanove minuti che atterriscono, spaventano, devastano: rivoltano l’inconscio, la psiche, l’immaginario, prima ancora che disturbare l’udito.
I quattro minuti di “A Blood Fiction” aprono su un’aria dilatata scossa dalla metallica, ultraterrena voce filtrata di Davies, con arpeggi statici à la Godspeed You! Black Emperor a disegnare scenari di desolata incombenza, preparando di fatto il terreno per la furiosa deflagrazione che sventra la successiva “Mocking The Ghost Of Crybaby Cobain”. Come trovarsi sulle montagne russe al luna-park, quando si percorre la lentissima salita che porterà alla picchiata: è un istante, poi si precipita in un magma di grida deformate e parossistica disperazione.
Concept romanzato che trae spunto dalla paranoia di Davies per il contagio da HIV, l’album rispolvera atmosfere à la Reznor descrivendo una personale downward spiral mentre scivola lungo i cunicoli di un manicomio interiore tra sferragliare di catene ed esplosioni di rumore bianco, con Davies ad iniettare veleno in un sabba di irrisolte paure ataviche: se il marziale incedere di “No Ecstasy” ricorda addirittura certo stralunato Roger Waters di “The Wall”, “Under The Vomit Moon” dispiega parole laceranti in uno spoken-word sputato fino al soffocamento, un intrico di armonie multiple e sonorità ipnotiche contrappuntate da ricami quasi barocchi dei synth ed intrise di un’afflizione che ne travalica il messaggio.
Tra le contorsioni di un bestiario trasfigurato, compendio di sporcizia, malattia mentale, dolore fisico, palpabile sofferenza, disagio, patimento e morte, ciò che realmente atterrisce è il potenziale evocativo di questa musica tetra ed agonizzante con il suo flusso orrifico e la sua morbosa perseveranza nel negare qualsiasi redenzione dal male. Cresce, si gonfia, si placa inattesa, perfino attrae, pur impiegando un linguaggio estremo, degradato, quasi invitante al disgusto (“Flu Breather”), a tratti una rievocazione degli Slayer, altrove viaggio metafisico a lambire la trascendenza dell’ultimo Bowie (“Outside The Clinic Is A Hungry Black Void Of Nothingness”), ingannevole preludio a continue ricadute nell’abisso, fino al compiersi dell’inevitabile.
“HIV 1994” è una spietata sinfonia per fragore martellante ed urla da una stanza chiusa: straziante danse macabre, prigione dell’anima, vestibolo di un antro senza uscita, anticamera dell’inferno, viaggio senza ritorno. The Meaning Of Pain. (Manuel Maverna)