WEATHER REPORT  "Black market"
   (1976 )

“Parlavamo poi molto in quelle sere, in qualche bar, dopo il concerto, insonni e morti, di politica, ciclismo, storie vere, e di come i Weather Report erano forti…”. La citazione è da “Keaton” di Francesco Guccini, chilometrica ballata jazzeggiante, triste storia senza lieto fine di un pianista jazz “appassionato e puro, in stile Rete Tre”. Essere citati in una canzone di Guccini è privilegio non da poco, da condividere con personalità del calibro di Arthur Schopenhauer, Roland Barthes, Jean-Paul Sartre, Charles Baudelaire e, ultimo ma non bischero, Riccardo Bertoncelli, padre spirituale di tutti noi recensori, dilettanti e non. Fu vera gloria? I Weather Report meritavano questa iscrizione nel dotto pantheon gucciniano? A giudicare da questo “Black Market” parrebbe proprio di sì: possiamo sottoscrivere il vecchio montanaro di Pàvana e dire che sì, erano davvero forti. Forti come l’Inter di quest’anno (almeno sulla carta) che può permettersi il lusso di tenere in panchina centrocampisti che farebbero la fortuna di qualsiasi squadra, i Weather Report tenevano come bassista di riserva l’eccellente Alphonso Johnson, ma d’altra parte il titolare era un mostro come Jaco Pastorius. L’abbondanza nel reparto batteria & percussioni era addirittura sfacciata: si poteva scegliere tra Peter Erskine, Chester Thompson, Narada Michael Walden e altri, per una sezione ritmica tra le più brillanti che si siano mai sentite, necessaria per assecondare le cadenze pazzesche dei due solisti. Ed eccoli qua gli insostituibili (come Pirlo): Josef Zawinul detto Joe, da Vienna, spuntato non si sa come a tenere viva la tradizione dei virtuosi di tastiera di un piccolo paese che fu il centro della musica mondiale per buona parte del ‘700 e dell’800. Chissà come ha fatto questo frutto tardivo dell’Austria Felix ad incontrare l’eccellente sassofonista nero Wayne Shorter, seguace della svolta elettrica di Miles Davis (che come al solito aveva visto parecchio lontano), e lo stesso Jaco Pastorius. Non si sa, ma l’importante è che l’incontro sia avvenuto, e che abbia dato risultati come “Black Market”, uno dei dischi più riusciti di ciò che viene chiamato “fusion”, “jazz-rock”, o “rock-jazz”, ma che in realtà è un genere praticamente inclassificabile perché contiene di tutto, dai ritmi funkeggianti di “Gibraltar” e di “Barbary Coast” alle poderose raffiche di tastiera di “Herandnu”, così barocche da richiamare alla mente i migliori gruppi progressive. Non solo: i cambi di ritmo all’interno dello stesso brano sono talmente numerosi e repentini che non ha più senso distinguere tra una “ballad”, un jazz-rock e così via. Un turbillon di lampi multicolori e funambolici di tastiera alternati a caldi soffi di sax come quello che ravviva l’iniziale “Black Market”, con Zawinul, Shorter e gli altri impegnati in una gara di bravura, non può essere etichettato in nessun modo. “Cannon Ball” promette un languido lento, ma si anima nella possente sezione centrale, per poi sfumare in maniera estremamente elegante tra i divini muggiti del basso di Pastorius e Zawinul che gioca con le note più alte delle sue interminabili file di tastiere. Sulla trascinante base ritmica di “Gibraltar” Zawinul e Shorter disegnano tante e tali traiettorie da far sì che nessuno si accorga che questo brano dura 8 minuti. E qui finisce il territorio del tastierista: i primi 3 brani erano suoi. Ora entriamo in zona Wayne Shorter: si nota subito un’immediata virata verso il melodico. Il motivo dominante di “Elegant People” è un caldissimo assolo del sax, degnamente sostenuto da tutta la base ritmica, a cui si unisce anche Zawinul, rinunciando per una volta a furoreggiare. “Three Clowns” vede invece di nuovo i due solisti in piena evidenza, con splendidi interventi: è l’unico vero e proprio lento del disco, con le sue atmosfere sognanti, il morbido basso avvolgente, batteria e percussioni sotto tono ma puntuali e precise. “Barbary Coast”, firmato Pastorius, concede poco alla melodia, essendo tutta centrata sul ritmo sincopato, perfettamente disegnato dal basso. Infine “Herandnu”, dove Alphonso Johnson, oscurato da Pastorius come esecutore, si rifà come compositore. E’ uno dei pezzi più affascinanti, con il suo inizio dall’inconfondibile ritmo “circolare” e ipnotico, che ben presto sfocia in una specie di frenetico sfogo di tastiera, per poi ritornare ad una breve riesposizione del tema iniziale, che sfuma dolcemente e ci lascia nel silenzio più assoluto, dopo un godimento totale che avremmo voluto senz’altro prolungare ben oltre i 35 minuti di questo capolavoro. (Luca "Grasshopper" Lapini)