EMERSON LAKE & PALMER  "Emerson Lake & Palmer"
   (1970 )

Se la musica in genere, e il cosiddetto rock sinfonico (o progressive rock) in particolare, fossero esclusivamente un fatto di bravura e spettacolarità nell’esecuzione (ovvero di virtuosismo), Franz Liszt sarebbe il più grande compositore della storia, e gli Emerson Lake & Palmer il più grande complesso di rock sinfonico degli anni ’70.

Le cose però sono andate diversamente, sia per il più grande pianista ottocentesco, sia per il suo emulo in campo rock Keith Emerson, vera stella di questo funambolico trio, capace di regalare grande godimento all’orecchio, senza però lasciare molte emozioni alla fine del piacevolissimo ascolto.

Il problema è che a cotanta padronanza di mezzi tecnici, ahimé, non corrisponde un’adeguata creatività compositiva, al punto che non di rado per trovare degni motivi gli E.L.P. hanno dovuto attingere da compositori del passato. Tra dischi che sono invariabilmente di ottima o eccellente fattura, l’album di esordio “Emerson Lake & Palmer” ha il merito di esporre già in pieno le tematiche musicali del trio, oltre a quello di non contenere gigantesche suites superiori ai 20 minuti.

“The barbarian” sembrerebbe la canzone più riconducibile alla dimensione rock, se tra gli autori non spuntasse un certo Bartok, importante compositore ungherese del primo ‘900. “Take a pebble” mostra la classica struttura delle composizioni degli E.L.P.: poche strofe cantate fanno da introduzione (e poi da chiusura) ad una parte centrale in cui si scatena il virtuosismo pianistico di Emerson, da solo o in gara con le funamboliche percussioni di Palmer. Lake, l’autore, si riserva solo una breve comparsa con un limpido assolo per chitarra acustica.

“Knife-edge” chiede aiuto a Janacek, compositore ceco, la cui “Sinfonietta” fornisce il tema su cui giganteggiano l’organo e le tastiere elettroniche di Emerson. “Tank” invece è farina del sacco degli E.L.P.: inizia con uno show tastieristico di Emerson, segue un lungo assolo di percussioni di Palmer, e alla fine il tutto si fonde in un rock perentorio suonato dai tre. Un tentativo di suite c’è anche qui, ma dura solo 8 minuti. Per il titolo vengono scomodate addirittura le tre mitologiche Parche (“The three Fates”): Clotho viene rappresentata da scariche organistiche che fanno pensare ad un Bach impazzito, Lachesis da un dolce assolo di piano ricco di trilli e arpeggi come un preludio di Debussy, Atropos da un’evoluzione del tema di Lachesis suonata però dall’intera “orchestra”. Inutile dire che, specie nelle prime due parti, è Emerson che spadroneggia.

Infine “Lucky man”, ovvero una boccata d’aria fresca alla fine di una serie di intrecci melodici pregevoli, ma a volte un po’ troppo ridondanti: questa invece è una vera e propria, ottima canzone, e neanche a farlo apposta è del meno virtuoso dei tre, Greg Lake, di cui si apprezza ancora l’essenziale e cristallina chitarra acustica. (Luca "Grasshopper" Lapini)