BRUCE SPRINGSTEEN  "Live in New York City"
   (2001 )

“L’importante è esagerare, sia nel bene che nel male” cantava il vecchio Jannacci, folle e sgangherato ma spesso illuminato. Bene, questo doppio live di Bruce Springsteen lo prende davvero alla lettera: è esagerato in ogni senso. Nella durata complessiva, da opera di Wagner (due ore e mezza) come nella durata dei singoli brani, versioni live estese fino a più del doppio dell’originale. E soprattutto nell’energia, nell’incredibile foga che ci mette un Boss che ormai ha passato la cinquantina. Il suo ruggito a dire il vero si sente di rado: più spesso viene fuori una voce gracchiante, ma è quella di una “cornacchia da combattimento” (una variante del “pettirosso da combattimento” di De André). In ogni momento del disco c’è da temere che gli venga un infarto, e viene il sospetto maligno che abbia preso chissà quale droga. Ma poi man mano che si ascolta ci si rende conto che è solamente una solenne ubriacatura di America, di sogno americano, di patriottismo nel senso più nobile della parola, quel senso ormai calpestato e offeso proprio da chi se ne riempie la bocca per questioni di sporchi interessi. Springsteen sembra intuire che la sua America è ormai alla frutta (siamo nei primi mesi del 2001, c’è già Bush e sta per arrivare la decisiva mazzata dell’11 settembre) e per una sera si vuole esaltare, urlando come un pazzo tra un brano e l’altro “New York City!” e aspettando con ansia il boato della folla che risponde. Sì, New York City è presente, l’America è ancora lì, ma è ad un passo dal prendere un’altra direzione, dal tornare indietro di secoli, verso la più totale ottusità, verso i discorsi sul regno del Bene in guerra (preventiva, però) contro quello del Male, insomma verso l’attuale deserto delle idee. Prima che tutto questo arrivi, sembra dirsi (e dirci) Springsteen, facciamo gli ultimi fuochi d’artificio. E ci dà dentro senza risparmiarsi, anche perché ha da poco ritrovato l’appoggio della E Street Band, cosa non da poco. Proprio alla sua storica band è dedicata l’unica esagerazione di cui si poteva fare a meno: una torrenziale e pomposa presentazione di 15 minuti sulle note di “Tenth Avenue Freeze-Out”, per l’occasione trasfigurata. Come del tutto irriconoscibile è “Born In The USA”, immersa in un ronzio di chitarre acustiche che gli dà un tono vagamente mediorientale: quello che perde in potenza rock lo acquista in suggestione. Il bello di questo live è che non contiene solo grandi successi, ma rivaluta in modo sorprendente canzoni che nei dischi originali erano relegate al ruolo di semplici estratti, se non proprio di riempitivo, come per esempio “Murder Incorporated”. La trasformazione più suggestiva in assoluto è quella di “The River”, sulla base di ciò che era già un capolavoro, qui esteso e impreziosito da un’introduzione del sax di Clarence Clemons e delle tastiere da ascoltare in silenzio assoluto (cosa che non fa la folla di New York) per poi rigodersela nel finale. Ma molto ben riusciti sono anche gli adattamenti rock dei brani country presi da “Nebraska”: in particolare “Atlantic City” sembra nata già così, in versione “dura”. E’ d’obbligo citare i due momenti più melodici di questo live: una sontuosa “Jungleland”, fedele al bellissimo originale, e una perla semisconosciuta ripescata addirittura dall’album d’esordio, “Lost In The Flood”, in cui il Boss si dimostra capace anche di strapparci qualche lacrima, e non solo di esaltarci. Non potevano mancare gli inediti: Springsteen è molto prolifico e li piazza un po’ dappertutto. “American Skin”, con la sua ossessiva ripetizione di “41 shots” (41 colpi) è una denuncia dei metodi a volte un po’ troppo spicci della polizia americana; per “Land Of Hope And Dreams” il titolo parla da solo: “Terra della speranza e dei sogni”. Quello che l’America non è più. (Luca "Grasshopper" Lapini)