GUSTAVO "Dischi volanti per il gran finale"
(2018 )
Gustavo – personaggio di fantasia nato nel 1797 – è il nome di un progetto originale e avventuroso che ruota intorno a Francesco Tedesco, a volte cantautore, a volte poeta, a volte più semplicemente intrattenitore, che ha scritto e arrangiato tutti i brani del disco, attorniato da una band composta per l’occasione da Aldo Canditone, Antonio Di Filippo e Gennaro Ferraro, che creano un mix convincente. Il progetto, nato in parte nel 2012 ma con finalità non musicali, prende corpo nel 2017, e conduce direttamente a questo album.
“Progetto ludico-esistenziale in memoria della fantasia”: così Tedesco ha descritto questo album, sua opera solista suonata con una band, a metà tra cantautorato folk e puro rock, pieno di passaggi profondi, di energia sincera e di slanci lirici e musicali di rilievo. La strumentazione è piuttosto inusuale: chitarra baritona, tromba, sax e batteria. L’album inizia con “Carente di note puntuali”, che già mostra quello che sarà il disco: un viaggio che si avvicina a tratti al jazz nostrano, sulle orme del cantautorato di Paolo Conte e con momenti simili ad alcuni album di Franco Battiato, richiamati anche dalle scelte lessicali e stilistiche dei testi. “Sanbenitos e berretti da somaro” dà spazio maggiormente al lato ritmico, con batteria e chitarra baritona che si inseguono e con la voce che tenta di attorcigliarsi a esse; “Gustavo (1797)”, con in aggiunta il termine greco (che qui rendo in caratteri latini) “monografìa”, è la carta d’identità dell’album, descrizione di una figura chapliniana misteriosa e ironica, un “artista del trapezio”, che come il disco rifugge da ogni facile etichettatura: qui splendono soprattutto gli strumenti a fiato, gestiti benissimo e arrangiati in maniera saggia e corposa. “Incubi” e la title track sono momenti più rock, dove la voce quasi recita i testi e fa volutamente a pugni con una strumentazione piena, quasi eccessiva, e quasi a coprire la voce stessa: il tutto crea un’atmosfera straniante molto riuscita e affascinante.
La seconda parte dell’album, pur mantenendo la stessa impostazione, mescola un poco le carte. C’è il lento lamento di “I fiorellini del male”, degregoriana nel modo di cantare di Tedesco e anche nel testo, a cui segue “Piani”, oscura almeno quanto la precedente, a inaugurare una fase del disco più cupa e riflessiva. “Buon giorno” riapre il lato più romantico e dolce del disco, e riscopre anche l’apertura melodica in cui Tedesco risulta così talentuoso. Colpisce, ancora una volta, la voce, delicata ma potente, che dà forza a un testo già di per sé denso e bello. I “pomeriggi sbagliati” di “Buon giorno” conducono a “S.B. Docet”, un rock spietato, graffiante e ironico, dove i fiati risplendono e, uniti alla chitarra baritona, danno al brano una veste da colonna sonora, da pezzo da titoli di coda – anche se non è l’ultimo del disco – che si adatterebbe perfettamente a una pellicola western. In “Senza titolo” è di nuovo la chitarra baritona, “corteggiata” e sospinta dai fiati, a essere al centro; il ritmo è bellissimo, incalzante, e il tono lirico che a tratti emerge dà un’ulteriore (e curiosa) veste all’album. La conclusione è affidata a “Rbpj”, dove i fiati sono al centro e impreziosiscono un quadretto jazz d’altri tempi, che conferma ulteriormente che “Dischi volanti per il gran finale” è uno dei dischi italiani più originali del 2018.
(Samuele Conficoni)