SADE "Promise"
(1985 )
“La sua origine d’Africa… la sua eleganza di zebra…” viene spontaneo associare questo verso di Paolo Conte ad Helen Folasade Adu, in arte Sade, raffinatissima cantante e autrice di origine nigeriana, che con il suo gruppo ha contribuito a rendere meno amari i famigerati e un po’ troppo bistrattati anni ’80, continuando a proporre il suo sound, più o meno invariato, fino ai nostri giorni. A dire il vero dell’origine d’Africa nella sua musica si possono trovare solo tracce minime: qualche percussione tipica piazzata qua e là, ma soprattutto una certa inflessione dolente della sua voce sensuale e delicata, certe note tenute un po’ lunghe, quasi strascicate, specialmente alla fine delle strofe, che rendono il suo modo di cantare inconfondibile e al tempo stesso, alla lunga, un po’ monocorde e ripetitivo, ma questo riguarda più che altro gli ultimi album. Ben più importante dell’origine è senz’altro l’eleganza, e parafrasando Paolo Conte si può dire che quella di Sade è un misto di zebra e di purosangue inglese, nel senso che alla grazia naturale della voce si accompagna un’impostazione musicale, sua e del suo gruppo, nettamente occidentale, perfettamente inquadrabile in quella corrente tipicamente britannica di neo-esteti del jazz che negli anni ’80 propose gruppi come Style Council ed Everything But The Girl. In genere si trattava di validi cultori di un suono pulito, di un pop-jazz cristallino anche se un po’ accademico, e i musicisti che accompagnano Sade non fanno eccezione, in particolare Stuart Matthewman, autore insieme alla stessa Sade di gran parte dei brani. Nel caso specifico c’era però il valore aggiunto di una voce non comune, il che spiega almeno in parte l’enorme successo discografico che fin dall’esordio (“Diamond Life”) premiò la cantante anglo-nigeriana. “Promise” (1985) è il secondo disco, e se da un lato rispetto al primo si presenta meno ricco di tormentoni, dall’altro resta forse l’esempio più lampante della perfetta eleganza formale di cui si diceva. Gli stessi due brani “acchiappagonzi”, cioè studiati per essere passati alle radio dai dj di bocca buona, sono accattivanti e hanno nei ritmi, veloci ma non troppo, la loro carta vincente: “The Sweetest Taboo” è una specie di bossa-nova accelerata scandita da vivaci percussioni, “Never As Good As The First Time” uno pseudo-soul trascinante, base ideale per i vocalizzi di Sade. Ma è nei lenti, o meglio nelle “ballads”, che il disco offre il meglio. “Is It A Crime” è un jazz abbastanza sostenuto, impreziosito da notevoli evoluzioni vocali e da scintillanti assoli di pianoforte e di sax; “Jezebel” vede la voce di Sade e il sax di Matthewman gareggiare in bravura sulla base di un tema dolcemente malinconico, in “Fear” note spagnoleggianti si insinuano con profitto in un suono altrimenti un po’ troppo levigato: è la chitarra di Carlos Bonell, solista noto anche per le incisioni di autori classici spagnoli. “Punch Drunk” è una placida “ballad” interamente strumentale, mentre “War Of The Hearts” e “You’re Not The Man” hanno in comune l’inizio in sordina, il ritmo in crescendo e il finale, in entrambi i casi ipnotico ma anche un po’ troppo tirato per le lunghe. Citiamo anche “Mr. Wrong”, con il suo azzeccato giro di basso, e “Maureen”, un soul allegro e brillante, modo insolito per ricordare un’amica che non c’è più. Chi desidera sensazioni forti può stare tranquillamente alla larga da questo come da tutti i dischi di Sade, ma chi cerca un’ottima musica da sottofondo lo troverà assolutamente perfetto, anche se non potrà fare a meno di notare l’assenza di quella scintilla di genio e di creatività che di solito caratterizza i capolavori. (Luca "Grasshopper" Lapini)