ROPSTEN  "Eerie"
   (2018 )

Di questo disco mi piace il suo essere fuori: fuori tempo, fuori luogo, fuori moda. E’ un disco che se ne infischia bellamente di cosa funzioni e cosa no, di cosa possa piacere, entusiasmare, colpire, far breccia oggigiorno, di dove portare un’idea, un’intuizione, una passione. Lo fa e basta.

I Ropsten sono Simone Puppato, Claudio Torresan, Leonardo Facchin e Enrico Basso, quartetto originario del trevigiano formatosi nel 2009 titolare fin qui di due ep autoprodotti. E’ finalmente il debutto lungo su etichetta Seahorse Recordings – mixaggio e masterizzazione di Tommaso Mantelli - questo “Eerie”, sette tracce strumentali che si inerpicano su alture inospitali, si avvolgono in spire soffocanti, indugiano su arie claustrofobiche e ossessive.

C’è molto, moltissimo post-rock, quasi il post-rock di prima generazione, quello dei Don Caballero e dei Rodan, dei Polvo o del dopo-Slint, e ben venga perché si era perso di vista quel modo sibillino di (ri)leggere la musica in fogge sghembe e sbilenche: “Y.L.L.A” apre così sulla più classica cadenza post d’antan, roba da June of ’44 periodo “Tropics And Meridians”, prosegue con inserto di voce robotica fuori campo – siamo in zona GY!BE e “Dead flag blues” –, si incunea in un raccolto marasma di contorsioni elettriche, chiude in una nebulosa di ricami ripetuti come in un mantra.

L’elemento ritmico è sempre predominante, le dinamiche ingoiano (quasi) tutto eccezion fatta per una spiccata propensione a costruire brandelli di armonie ben delineate: è il caso dei sei minuti e mezzo di “Globophobia”, incrocio tra Goblin e Saint Lawrence Verge con un basso devastante ed una costruzione melodica affidata alla chitarra, o dei due minuti e poco più di “Batesville”, risolti in una inattesa colata di feedback.

Alla ricerca di tessiture che superino la stasi algida dei Vietcong/Preoccupations o la cervellotica cerebralità del math, il quartetto sciorina ascendenze ben evidenti, sublimate in cavalcate ipnotiche di matrice scoperta, e ben vengano pure queste a risvegliare fantasmi mai sopiti: il trittico conclusivo di “Kraut Parade” (nomen omen), “Brain Milkshake” e “180 mmHg” imbastisce venti minuti torrenziali di puro furore teutonico, martellamento incalzante e squadrato che lievita sul pulsare liquido del basso e su una cadenza metronomica lanciata a rotta di collo verso il nulla.

Poco importano considerazioni sparse su quanto sia attuale o in sintonia col gusto popolare, se incarni o meno la quintessenza dell’indie, dell’avant o blah blah blah: “Eerie” è un piccolo gioiello di introversione, compendio di pessimismo&fastidio nell’ennesima declinazione del logorio della vita moderna. E’ una perla in pasto ai pochi che ne sapranno riconoscere l’intima, incrollabile fede in qualcosa, nonostante tutto. (Manuel Maverna)